sabato 14 marzo 2015

Intervista ad un profugo Giuliano-dalmata ospitato a Barletta





di Raffaele Giannone

Un’intervista a un profugo Giuliano-Dalmata di nome Elio Hersich, arrivato nel 1950 da Fiume e portato nel Centro Profughi di Barletta nella Caserma Ettore Fieramosca in via Manfredi.

 questa persona ora dovrebbe vivere a Vercelli. Si parla dell’esodo dai Balcani all’Italia durante e dopo il secondo conflitto mondiale. Erano circa 400 profughi arrivati a Barletta, quello che mi chiedo, ma sono andati tutti via o qualcuno si è fermato a Barletta, ad alcuni gli cambiarono anche il cognome.
L’intervista
Lei quindi arriva a Barletta e va in un campo profughi...
R.: "Mi ricordo che pioveva, e son venuti dei giovani a prenderci alla stazione, e con le due valige siamo arrivati al campo profughi. E lì era un vecchio monastero, ma non so quanti saremmo stati, dai 380 ai 450 conforme a quando c’era la piena, perché sa, e poi anche da lì si andava via. E lì ho fatto venti mesi, mai lavorato una giornata! Anzi no, ho lavorato cinque giornate, ma che non lo sappiano il direttore del campo, se non non mi davano il sussidio. E il sussidio era poi come una deca del militare, perché i primi tempi davano da mangiare, e dopo invece davano quel piccolo sussidio che dovevi farti da mangiare te. La mamma era andata a comperare uno di quei fornelli a petrolio, il Primus - e l'ho ancora giù in cantina - , mi ricordo, brutti ricordi."
38) E la vita di campo come funzionava?
R.: "Il campo era che dovevi avere delle regole: alle 10,00 di sera il portone si chiudeva, chi era dentro era dentro, chi era fuori era fuori. Poi si faceva la doccia una volta alla settimana; noi ci lavavamo perché andavamo al mare e tutte quelle cose lì, ma la doccia era obbligatoria [per] tutte le famiglie una volta alla settimana, prima [le] donne e poi gli uomini. C'era dentro un'infermeria, un piccolo negozio gestito dai profughi greci; c'era due greci e un turco, perché noi eravamo lì fiumani, zaratini, polesani, istriani, greci, turchi, polacchi e albanesi. C'era di tutto, e si conviveva: in una grande stanza, tre o quattro famiglie divise. Noi non da coperte, ma da brande: c’era due brande, una sopra all'altra, noi avevamo due brande. E lì si cucinava su questa Primus, come dire, un piccolo mobiletto e qualcosa così. E mio papà lavorava dentro [il campo]: lui visto che era un uomo capace, lo avevano preso come impiegato alla direzione, che lì c'era un direttore mandato da Roma e tutte quelle cose lì. Eravamo inquadrati bene per conto di quello lì. Anzi, il vicedirettore si chiamava Tito, e mio papà ha detto così: guardi, un Tito lascio e un altro trovo! Non vuol vedere, era dietro di lui e l'ha preso in cattivo occhio. Poi il papà aveva il compito di andare a prendere i medicinali e tutto quanto per l'infermeria che avevamo, e la mamma invece... Perché con quello che ci davano dentro non si poteva vivere, bisognava fare qualcosa: papà prendeva qualcosa di là, e la mamma, dato che le avevano trovato un posto, era da una signora di Udine, si chiamava M.-ese, che aveva una fabbrica di ghiaccio e confetti, e la mamma gli faceva da mangiare e gli lavava e gli stirava, perché quella lì era una grande signora. Usciva al mattino e rientrava al pomeriggio. E il genero, che era procuratore del tribunale di Trani, quando rientrava diceva: ah, si vede che oggi ha cucinato l'Elvira! Perché noi, non per dire, ma dalle nostre parti le donne sapevano fare da mangiare bene, perché la cucina da noi era slava, italiana, austriaca e ungherese, e allora le donne sapevano far da mangiare tutto."
39) Nel campo voi avevate qualche tipo di assistenza come ad esempio vestiti o pacchi dono?
R.: "No, no, niente, niente. Per conto di quelli là niente, da noi. So che non mi hanno neanche mai dato un paio di calze. Quello che avevamo è che dato che c'erano molti cinema a Barletta - mi ricordo il cinema Curci, Di Lillo, Paolillo, Eden - e allora cosa facevano sti signori, i padroni dei cinema? Davano tutte le sere cinque o sei biglietti per i profughi, ma cinque o sei di ogni cinema. E poi ti mettevi sulla bacheca fuori: guarda, sono fortunato, stasera vado al cinema! Perché non avevi i soldi neanche per il cinema, capisce?"
40) C'era quindi una specie di estrazione?
R.: "No estrazione, ti mettevano in lista, ma prima che andavi, su 350 o 400 persone, prima che ti arrivava il tuo turno era dura!"
41) Su Barletta le chiedo ancora due cose. Mi ha detto di aver lavorato, ma la gente lì dove andava a lavorare?
R.:"Campagne, tutto campagne. Lì non c'era un'industria, c'era la cementeria di Barletta e basta. Il resto eran tutti pescatori o campagne. Perché mi ricordo che vicino a noi - il campo era in via Manfredi 24 - partivano già alle 4 e mezza di mattina con quei camion dalle ruote grandi, sa, e andavano a lavorare nelle campagne. Poi quando ritornavano mangiavano -noi dicevamo- come gli indiani, perché avevano un piatto unico e mangiavano. Noi non eravamo abituati a vedere quelle cose, almeno uno, appena li vedeva diceva: ma che razza di gente è questa qui! Io non dico che Barletta era tutta quella cosa lì, ma la parte periferica dove che eravamo noi in campo, era proprio che li vedevi magiare con le mani, coi piatti grossi di alluminio. Cime di rapa con la pasta... Io non dico che tutta Barletta è così. Poi un'altra cosa: quando andavi in pescheria, che lì quando fanno i mercati fanno un casino da matti, mangiano il pesce crudo. E noi abituati alla buona cucina, vedevi quelle cose e ti meravigliavi, no?"
42) E quindi i profughi lavoravano anche loro nelle campagne?
R.: "No, no, i profughi erano solo profughi. Per un certo periodo mio papà aveva preso la disoccupazione, però poi sai, te la danno una volta e poi bom."
43) A Barletta la gente come vi ha accolto?
R.: "Ma, non male, io dico la verità Molti dicevano i profugacci, ma molti venivano... Perché dato che da noi si ballava... Lì invece per il corso, dove che vendevano ste radio, i dischi e quello lì che attaccavano la musica, vedevi ballare. Coppie di ragazzi con ragazzi, e noi guai, sa! Come le nostre ragazze quando andavano al mare, ci venivano a spiare, perché le sue andavano coi vestiti praticamente, e le nostre in costume. E molti ragazzi - quasi tutti i sabati si ballava da noi -, gli amici, ci siamo fatti delle amicizie anche a Barletta. Era brava gente, io non posso dire niente di male. Perché certiduni trovano da dire, ma dove sono andato io grazie a dio ho trovata brava gente. Barletta, io non posso dire niente di male."
44) La cosa interessante sulle ragazze l'ha detta lei in un certo senso adesso. Il fatto che le donne istriane fossero aperte, ed emancipate - forse più di quelle italiane - dava adito - e l'ho riscontrato in alcune testimonianze - ad apprezzamenti poco simpatici da parte dei locali, come quello che fossero di facili costumi...
R.: "Facili costumi, ma però bisognava provare! Può darsi che sia stato detto, ma tra il dire e il fare ci sta di mezzo il mare! Però, vede, quando venivano da noi dentro che si ballava, erano tutti contenti, perché loro guai! Lì mi trova giusto che loro - dato che guardano molto -, la mamma va al cinema con la figlia e il fidanzato, e poi molte le vedeva incinte. Perché le nostre ragazze erano libere, però avevano la testa. Invece quelle lì appena potevano gli scappava il peccato, inutile che le dica cosa facevano! Le nostre invece ragionavano, erano serie e brave ragazze. Prima di dartela sa, ci pensavano, invece quelle lì appena trovavano il momento, trac, gli scappava il figlio! Vede che roba?!"
45) Da Barletta lei viene poi a Vercelli...



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