sabato 14 marzo 2015

Da manoscritti di profughi istriani ospiti a Barletta







di Fulvio Frezza

Barletta fine anni quaranta, profughi dalmati nella Caserma di via Manfredi, il racconto di Elio H.

[Quando siamo arrivati a Barletta] mi ricordo che pioveva e son venuti dei giovani a prenderci alla stazione, e con le due valige siamo arrivati al campo profughi. E lì era un vecchio monastero - il campo era in via Manfredi 4 - ma non so quanti saremmo stati, dai 380 ai 450 conforme a quando [c’]era la piena, perché poi anche da lì si andava via. E lì ho fatto venti mesi, mai lavorato una giornata! Anzi no, ho lavorato cinque giornate, ma che non lo sappiano il direttore del campo, se non non mi davano il sussidio! E il sussidio era poi come una deca del militare, perché i primi tempi davano da mangiare, e dopo invece davano quel piccolo sussidio che dovevi farti da mangiare te. La mamma era andata a comperare uno di quei fornelli a petrolio, il Primus. Il campo era che dovevi avere delle regole: alle 10,00 di sera il portone si chiudeva, chi era dentro era dentro, chi era fuori era fuori. Poi si faceva la doccia una volta alla settimana; noi ci lavavamo perché andavamo al mare, ma la doccia era obbligatoria [per ] tutte le famiglie una volta alla settimana, prima [le] donne e poi gli uomini. C’era dentro un’infermeria, un piccolo negozio gestito dai profughi greci; c’era due greci e un turco, perché noi eravamo lì fiumani, zaratini, polesani, istriani, greci, turchi, polacchi e albanesi. C’era di tutto, e si conviveva: in una grande stanza, tre o quattro famiglie divise. Noi non da coperte, ma da brande: [c’]era due brande, una sopra all’altra, noi avevamo due brande. E lì si cucinava su questa Primus, un piccolo mobiletto e qualcosa così. E mio papà lavorava dentro [il campo]: lui visto che era un uomo capace, lo avevano preso come impiegato alla direzione, che lì c’era un direttore mandato da Roma. [Poi c’era anche] il vicedirettore [che] si chiamava Tito, e mio papà ha detto così: guardi, un Tito lascio e un altro trovo! Perché con quello che ci davano dentro non si poteva vivere, bisognava fare qualcosa: papà prendeva qualcosa di là, e la mamma, dato che le avevano trovato un posto, era da una signora di Udine che aveva una fabbrica di ghiaccio e confetti e le faceva da mangiare, le lavava e le stirava. Usciva al mattino e rientrava al pomeriggio.
Elio H.

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