sabato 14 marzo 2015

Da manoscritti di profughi Istriani ospitati a Barletta

Il Campo Profughi di Barletta racconto di Rodolfo Decleva


di Fulvio Frezza

Nel frattempo a Fiume erano sopravvenute le regole del Trattato di Pace di Parigi del 1947 che stabiliva che i residenti che non volevano diventare jugoslavi dovevano optare per la conservazione della cittadinanza italiana con l’obbligo di rimpatriare in Italia entro un anno. La mia famiglia esercitò questo diritto, ma per due volte l’opzione di mia madre fu respinta perché di lingua d’uso croata essendo lei nata a Lipa, un paese tra Fiume e Trieste dove si parlava anche il croato o lo sloveno. Così mio padre fece ricorso al Consolato Generale d’Italia di Capodistria che fu accolto al secondo tentativo nel 1950. Arrivati a Trieste, furono fatti proseguire per Udine dove c’era il Centro di smistamento che li destinò al Campo Profughi di Barletta.
In quei momenti sentivo molto la mancanza degli affetti familiari che mi erano mancati per quattro anni e decisi dopo qualche mese di rassegnare le dimissioni da Istitutore. Invano il Direttore Prof. Mario Pagliari cercò di trattenermi offrendomi il ruolo di Vice Direttore. La mia decisione era stata presa.
Arrivato al Campo, che era una vecchia Caserma dell’Esercito nel centro cittadino, trovai di guardia il signor Moffetti, fiumano, che mi fece tante feste.
Che gioia abbracciare i genitori e i fratelli e nel contempo dover soffocare la delusione del cambio di sistemazione abitativa dato che in Collegio disponevo di una bella luminosa cameretta e qui ero ammucchiato su un letto a castello in un box dell’ampia e buia soffitta della Caserma.
La grande superficie ricavata nel sottotetto della caserma era stata divisa in tanti piccoli box dove venivano sistemate due famiglie e a noi era toccato di dividere quel “quartierino” con la famiglia fiumana Prischich, con la quale eravamo già conoscenti a Fiume e andavamo molto d’accordo.
Ognuno nel suo piccolo era un “re” e due coperte da militare erano fissate su un cavo di acciaio che divideva a metà lo spazio del box. I letti a castello risparmiavano spazio prezioso ed i cassoni di legno che erano serviti a Fiume per il trasporto delle cianfrusaglie facevano da tavolo e da sistemazione del fornello elettrico o della “Primus” a petrolio, che servivano per cucinare. Fortunatamente fu in quel 1951 che a Barletta scoppiò il boom delle cucine a gas liquido Pibigas e mia madre poté così godere i vantaggi del progresso e buttare via quei fornelletti elettrici che spesso bruciavano le resistenze e ci lasciavano senza mangiare.
Fui preso in forza dal Direttore del Campo e ciò mi dava diritto ad un sussidio mensile di Lire 125 giornaliere e inoltre potevo fare ogni tanto qualche quindicina di giornate di lavoro straordinario per le necessità della struttura. Lavoro nella piazza di Barletta non ce n’era perché zona agricola e vinicola, e conseguentemente ogni tanto bisognava attingere ai propri magri risparmi o alla vendita di qualche oggetto prezioso, chi che lo aveva. Alcuni profughi erano fissi negli Uffici e il signor Moffetti era addirittura il Sovrintendente.
Essere arrivati nella Bassa Italia al contatto con le usanze comportamentali di una terra agricola sconosciute ai profughi della Venezia Giulia provocarono inizialmente uno shock, ma poi tutto si normalizzò: eravamo scappati dalla guerra e avevamo un tetto, e inoltre non c’era più la paura dei titini. Il Campo era molto comodo, ubicato nel pieno centro della città, la gente barlettana era molto semplice e molto buona; nel mercato c’era tanta verdura e ben di Dio, e nei banchi del pesce c’era tanto pesce a buon prezzo, anche se sempre coperto dalle mosche che non mancavano mai.
Quattro Cinema c’erano a Barletta e tutti e quattro regalavano alla Direzione del Campo tessere omaggio per entrare gratis nei giorni non festivi, e così i profughi piangevano per le storie strappalacrime del nostro Amedeo Nazzari e della Ivonne Sanson, o si erudivano con i film a colori per le musiche di Cole Porter e George Gerschwin.
Per l’Epifania veniva puntualmente un Dirigente della Prefettura di Bari accompagnato dal Sindaco di Barletta, che portavano i Pacchi-dono per i bambini e davano coraggio agli adulti.
Al sabato sera una sala era adibita per il ballo grazie a due radio che suonavano al massimo volume e – come sempre è stato e sempre sarà – c’era il contorno delle donne anziane, che ricordando i loro bei tempi passati non mancavano con i loro commenti. Uno spaccio interno gestito dai profughi da Rodi Egeo vendeva vino, gazzose e aranciate e tutti erano contenti.
Il sabato era una giornata importante perché era il giorno della doccia, che era distinta per donne e uomini, e il signor Moffetti era l’unico autorizzato ad entrare quando era il turno delle donne per regolare la temperatura dell’acqua, ma c’era chi si lamentava che ci “buttava” l’occhio.
Un’altra grande manovra capitava al sabato ed era la pulizia delle brande, dei letti, che essendo vuote dentro, erano rifugio per le cimici e la tecnica per estirparle era di versarci dentro il petrolio e dare fuoco. Ma la guerra contro le cimici non aveva mai fine e continuava anche di notte.
Grazie al DDT non si vedevano i pidocchi, così frequenti in tempo di guerra, salvo per gli scolari che ancora adesso se li passano l’un l’altro a scuola. Quando moriva un profugo, la salma veniva sistemata nella sala della doccia e al funerale non mancava nessuno.
Insieme con noi giuliani, in Campo erano ospitati anche profughi del nostro Impero d’Etiopia e italiani cacciati dalla Romania, oltre che i profughi da Patrasso, Rodi e Dodecanneso. Questi ultimi erano gente che aveva vissuto prima ancora a Smirne in Turchia e già allora avevano perso tutte le loro sostanze per causa della guerra fra greci e turchi.
Avevano creduto di ricominciare nel Dodecanneso italiano e invece gli capitò l’avversa sorte di subire il bis.
Fu tra questa bella gente che conobbi Anna Medini, colei che sarebbe divenuta mia moglie e che ho sempre definito la “Timoniera della mia vita”. Siamo vissuti per 58 anni nel bene e nel male e la celebrazione delle Nozze d’Oro nella chiesetta di Sussisa ha rappresentato uno dei momenti più felici nel tormentato finale della sua vita.
A Barletta ogni giornata passava monotona in attesa di qualcosa che cambiasse.
Io ero “studiato” e per questo la gente mi pregava di scrivere lettere di supplica agli Enti interessati affinché venissero riconosciuti i loro diritti per le pensioni, i danni di guerra, i beni abbandonati in Jugoslavia, i contributi INPS, la reversibilità della “Cooperativa Garibaldi” di Genova, che era stato un grande fallimento di risparmio marittimo.
Un caso scandaloso fra i tanti quello di una bambina di otto anni, orfana di guerra, alla quale il Giudice Tutelare aveva disposto di bloccare un fruttifero in banca fino alla sua maggiore età di 21 anni, il provento dell’assicurazione paterna finito poi mangiato dalla svalutazione.
Il Giudice, che stava a Civitanova Marche, richiedeva costosi atti notarili per concedere insignificanti prelievi per i libri di scuola e l’abbigliamento. Era la giustizia dei sordi verso chi aveva pagato con la vita l’amore di Patria.
Mi raccontò mio padre che appena arrivato al Campo, chiese in loco dove era più conveniente depositare una somma di denaro, frutto dei suoi magri risparmi. Siccome gli risposero che conveniva alla Posta perché il denaro era più sicuro che in Banca, lui fece il suo bravo deposito alla Posta.
Quando nella settimana successiva aveva bisogno di fare un prelievo, presentò il documento postale di riconoscimento con fotografia allo sportello e la sua sorpresa fu che l’impiegato non voleva eseguire l’operazione perché lui non lo conosceva. Insomma, mio padre doveva portargli una persona a lui conosciuta che garantisse che mio padre era veramente la persona titolare del conto.
Mio padre perse il lume della ragione e gli gridò: “Ma come, la settimana scorsa per prendere i miei soldi mi conoscevi, e oggi che li voglio ritirare dici di non conoscermi!”
Poi tutto si aggiustò quando mio padre minacciò di recarsi dai Carabinieri.
E così la nostra povera gente – una volta benestante e ora costretta a vivere con le cimici – si svegliava ogni giorno sperando di ricevere una buona notizia da Roma, Genova, Trieste, Rieka o Civitanova che la pratica era andata a posto e invece tutto continuava come prima o peggio di prima.
E mentre noi giovani vivevamo spensierati alla giornata, i nostri anziani vegetavano in silenzio e in disparte. Loro che avevano abbandonato tutti i sudori di una vita per venire in Italia, ora si accorgevano che avevano perso anche la dignità, mentre la loro salute cominciava a dare i primi allarmi.
Morivano di malinconia in casa d’altri avendo nel cuore la loro terra che non era più la loro.
La signorina Varin, fiumana e nubile, mi parlava sempre con orgoglio di una sua nipote pianista che aveva suonato in concerto a Milano la “Rapsodia in blu” di George Gerschwin; altri ricordavano le stagioni operistiche al nostro Teatro Verdi, mentre quelli di Patrasso – che si erano portati seco le chitarre greche – continuavano ugualmente a cantare in greco “O Kaimos” (Il dolore) come capita a noi quando cantiamo la croata “Tamo daleko”, quelle parole che tagliano il cuore e l’anima che vogliono dire “Là, lontano, oltre i monti e il mare. Là c’è la mia terra; là c’è il mio amore”. In questo ambiente ho studiato per quattro anni, di notte perché non era possibile farlo di giorno per la confusione che facevano oltre cento persone sistemate in quella grande camerata nel sottotetto senza soffitti, e combattendo contro le cimici che proprio di notte si mettevano in processione.
Mi trovavo in grande imbarazzo quando Italo Folonari – erede della famiglia dei Baroni del vino e compagno di Università - mi invitava nella sua bella casa di Barletta situata nella proprietà dove stavano i depositi vinari della Ditta paterna. Là ci preparavamo per gli esami e ce la spassavamo bene. Mio padre aveva costruito una battana a vela ormeggiata nel porto di Barletta e quando c’era bel vento andavamo a bordeggiare.
In alternativa, con la sua 500 “Palinuro” famosa per aver preso parte a varie Mille Miglia, andavamo a visitare i posti più belli del Gargano tra cui la Foresta Umbra, il Santuario di Monte Sant’Angelo e San Giovanni Rotondo con la leggenda di Padre Pio.
Nel 1954 mi sono laureato. Giusto in tempo perché un mese dopo hanno chiuso quel Campo Profughi e mi sono trasferito a Genova dove ho iniziato il nuovo round della mia vita.

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