lunedì 23 marzo 2015

Le cento missioni aeree del maggiore Domenico Senatore


DI TOMMASO FRANCAVILLA



Domenico Senatore nasce a Barletta il 6 luglio 1902. Si diploma presso l'istituto tecnico (sezione fisico – matematica). Il 9 febbraio 1925 diviene allievo pilota, per specializzarsi nella guida di idrovolanti. Ammesso alla Accademia di Caserta il 2 settembre 1930. Nominato sottotenente - pilota nel 1932. Promosso capitano nel 1937. Comandante della 190 Squadriglia B.M. a Brindisi dal 1937. Nel 1941 fu promosso Maggiore della Regia Aeronautica.

La carriera da aviatore e le missioni di guerra
Domenico Senatore iniziò la sua carriera di pilota eseguendo missioni di ricerca di aerei dispersi in zone di guerra. A partire dal 1939, eseguì missioni segrete per il governo. Fu pilota di bombardieri, prendendo parte a missioni di bombardamento in Tunisia, Egitto. Prese parte allo sbarco nell'isola di Corfù (durante la campagna di Grecia), trasportando truppe destinate all'occupazione di Cefalonia e Zante. Partecipò a bombardamenti su Malta, Giaffa, Tobruk, Caifa, Patrasso.

L'11 luglio 1941, colpì una portaerei nella battaglia di Punta Stilo, che gli valse la medaglia di bronzo al valore militare. Durante la sua intesa carriera svolse almeno 100 missioni aeree. L'amore per il volo è espresso in una sua frase:«
Solo il mio aereo può darmi la soddisfazione che attendo, al quale sono legato da un vincolo di sangue». Fu decorato con due medaglie d'argento al valore militare ed una al valore aeronautico.

Il 4 agosto 1941, nei cieli di Foggia, Domenico Senatore e il suo equipaggio, precipitano con il loro aereo, per cause imprecisate. La vedova, Teresa Titi, dispose che salma del Maggiore fosse inumata nel cimitero di Brindisi, dove vivevano col suo unico figlio. Domenico Senatore aveva 39 anni.

Si ringrazia per la collaborazione Ruggiero Graziano, presidente dell'ANMIG (Associazione Nazionale Mutilati Invalidi di Guerra) - sezione Barletta (via Capua, 28). La redazione di BarlettaViva invita i discendenti di Domenico Senatore, a contattare la redazione per approfondire la conoscenza del loro illustre parente, inviando una mail al nostro indirizzo di riferimento, oppure al numero 320 4160422

martedì 17 marzo 2015

La vita spezzata dei fratelli Ventrella

I fratelli barlettani, partigiani nelle valli piemontesi





di TOMMASO FRANCAVILLA


La notizia dell'armistizio, siglato l'8 settembre 1943, tra Badoglio e le forze alleate, getta allo sbando l'esercito, gli alti comandi fuggono al sud Italia, assieme al re Vittorio Emanuele III.
La nascita dei gruppi partigiani. Le truppe di soldati stanziate lungo il confine con la Francia,constatando lo stato d'abbandono che regna tra gli alti comandi, abbandonano le caserme.

La popolazione della Val di Susa da rifugio ai soldati nelle proprie case, salvandoli dalla rappresaglia tedesca. Nel mese di settembre del 1943, l'attività dei primi gruppi partigiani fu organizzativa: si stabilirono i primi contatti tra le varie bande partigiane e gli antifascisti che vivevano nei centri urbani della valle, in grado di fornire delle direttive organizzative. I partigiani si dedicano al recupero di armi depositate in numerose caserme presenti nel fondovalle presidiate da tedeschi e carabinieri, con colpi di mano audaci e rapidi. Intanto, i fascisti avevano creato la Repubblica di Salò, con l'aiuto delle truppe naziste occupanti. Verso la fine di settembre del 1943, il movimento partigiano ha una spinta decisiva grazie all'azione di uomini quali: Carlo Carli (comandante di Vincenzo Ventrella), Walter Fontan, Felice Cima e Marcello Albertazzi, che assumono il comando delle bande, rendendo la vita impossibile a tedeschi e fascisti, con azioni mirate.

Le prime azioni dei gruppi partigiani
Nei mesi seguenti, sia per un ideale antifascista,sia per sfuggire ai nazifascisti e al servizio militare, numerosi giovani entrano le file del movimento partigiano valsusino. Dopo il recupero di armi e munizioni, sin dai primi giorni di ottobre del 1943, i partigiani iniziarono una vasta e sistematica attività di guerriglia con attacchi alle caserme, prelevamento di spie, sabotaggi, agguati nei boschi.

Rastrellamenti dei nazi - fascisti
L'estate del 1944 è caratterizzata da una serie di rastrellamenti ad opera dei nazifascisti e SS italiane, di cui abbiamo già accennato nell'articolo sui fratelli partigiani Vitrani. La strategia è caratterizzata da offensive, mediante rastrellamenti e stragi, in modo da impedire al movimento partigiano di svolgere sui nazifascisti una pressione decisa e uniforme. Su entrambi gli schieramenti, si registrarono esecuzioni sommarie, torture, violenze, saccheggi. In questo scenario, si svolge la breve vita dei fratelli Ventrella.



Armando Ventrella nasce l'11 maggio del 1928 a Torino, da famiglia di cittadini barlettani emigrati. Nell'ottobre del 1943 entra nella formazione partigiana del Corpo Volontari della Libertà, operante nella Val Chisone. La suddetta valle e le Val di Susa e Val Germanasca, furono interessate dai sanguinosi rastrellamenti operati da truppe nazifasciste (15000 soldati) contro i gruppi partigiani. In uno di questi rastrellamenti, Armando è catturato e impiccato dai tedeschi il 4 agosto 1944 a Sestriere (To). In quei giorni, in quelle valli furono uccisi altri 210 partigiani della Divisione Alpina Autonoma "Serafino" e delle brigate partigiane "Garibaldi". Armando Ventrella aveva 16 anni.

Vincenzo Ventrella nasce il 1 gennaio 1925, milita nella 46esima Divisione Garibaldi, brigata da assalto comandata da Carlo Carli. Catturato durante i rastrellamenti messi in atto dalle truppe nazi fasciste, fu impiccato il 19 luglio 1944 ad Orbassano (To). Vincenzo aveva 19 anni. Per onorare la memoria dei fratelli Ventrella , il Comune di Barletta ha posto una lapide sulla loro casa natale, in vico del Lupo, traversa di corso Vittorio Emanuele.

Si ringrazia l'Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea, per la concessione dei ritratti fotografici dei fratelli Ventrella (www.istoreto.it).
Si ringrazia per la collaborazione Ruggiero Graziano, presidente dell'ANMIG (Associazione Nazionale Mutilati Invalidi di Guerra) - sezione Barletta (via Capua, 28). La redazione di BarlettaViva invita i discendenti dei fratelli Vitrani, a contattare la redazione per approfondire la conoscenza del loro illustre parente, inviando una mail al nostro indirizzo di riferimento, oppure al numero 320 4160422.

Le brigate d'assalto "Garibaldi", durante la Resistenza italiana, furono delle brigate partigiane legate prevalentemente al Partito Comunista Italiano, in cui militavano anche esponenti di altri partiti del CLN, specialmente socialisti. Pochi furono invece i componenti legati al Partito d'Azione o democristiani. In realtà la maggioranza dei combattenti nelle Brigate Garibaldi non manifestava una chiara identità politica. Coordinate da un comando generale diretto dagli esponenti comunisti Luigi Longo e Pietro Secchia, furono le formazioni partigiane più numerose e quelle che subirono le maggiori perdite totali durante la Guerra partigiana. In azione i componenti delle brigate indossavano per riconoscimento fazzoletti rossi al collo e stelle rosse sui copricapi.

Il Corpo volontari della libertà, in acronimo CVL, è stato la prima struttura di coordinamento generale della resistenza italiana durante la seconda guerra mondiale, ufficialmente riconosciuto sia dagli Alleati, che dal governo Badoglio.
A partire dal settembre 1943 formazioni irregolari di partigiani iniziarono ad operare per la cacciata dei fascisti che, alleati con i nazisti occupanti, avevano creato nel nord del Paese la repubblica di Salò.
Fonte Wikipedia

sabato 14 marzo 2015

Morti per fame nel marzo del 1956 Ingiustizia politica e povertà




di Paolo Doronzo

Sul 1956 si potrebbero scrivere pagine e pagine di storia internazionale e nazionale. Tanto per intenderci è l'anno del Rapporto segreto con cui Nikita Kruscev denuncia i crimini del suo predecessore Stalin, avviando la destalinizzazione del PCUS; avviene il disastro di Marcinelle, dove perdono la vita tantissimi minatori italiani; scoppia la crisi internazionale per il Canale di Suez; c'è la rivolta antisovietica a Budapest; in Medio Oriente si muore per la II guerra arabo-israeliana.

In Italia il Governo Segni (DC-PSDI-PLI); si vivevano anni in cui ci si era buttati alle spalle la tragedia bellica e si provava a ripartire, sebbene in una particolare condizione di democraticità, che sarebbe durata ancora a lungo e una netta contrapposizione, politica e sociale, fra cattolici, sostenuti dagli Stati Uniti, e comunisti, filosovietici. Un rigido sistema clericale si faceva sentire, soprattutto nei piccoli centri del Paese.

Quell'anno, l'Europa e l'Italia avevano conosciuto un inverno assai rigido, presentando abbondanti nevicate e gelate anche in una località ad economia prevalentemente agricola come Barletta. I campi erano coperti dalla neve ormai da settimane e dunque il cibo, soprattutto nelle case più povere, scarseggiava. Dall'America, nel secondo dopoguerra, provenivano dei pacchi contenenti alimenti di prima necessità, gestiti dalla POA (Pontificia Opera di Assistenza) e affidati alle parrocchie affinché li distribuissero alle famiglie più indigenti segnalate dall'Ente Comunale di Assistenza.

Sindaco di Barletta in quel periodo era il socialista Giovanni Paparella. I pacchi venivano custoditi nell'ex convento attiguo alla chiesa di S. Giuseppe, in via Manfredi,2 a pochi passi da piazza Plebiscito. Quei giorni di inizio marzo, la popolazione barlettana era esasperata dal freddo e dalla fame, ma i pacchi non vennero distribuiti fra tutti, ma in modo piuttosto ingiusto e sospetto. L'accusa fu che venivano selezionate le famiglie in base al loro credo politico e non per le reali necessità. Naturalmente i non filo-democristiani venivano tagliati fuori.

Così, il 14 marzo, si formò un corteo di protesta di circa duemila persone che giunse al deposito custodito sotto la responsabilità di don Ciccio Francia della chiesa di S.Giuseppe, per assaltarlo. I racconti descrivono il prete come il responsabile dei tragici fatti che avvennero. Infatti la folla spingeva il portone del magazzino per entrare. Allora la Polizia, la famosa Celere di Scelba, intanto giunta sul posto, sparò sulla folla. Morirono sul colpo Giuseppe Spadaro e Giuseppe Dicorato, e dopo qualche giorno in ospedale Giuseppe Loiodice, che era stato ferito mortalmente. "Morire per fame e lavoro", come ricorderà la Cgil nel Cinquantesimo anniversario.

Questa grave pagina di storia locale, che ebbe anche eco nazionale, raffigura una notevole tragedia sociale di quel particolare momento di difficoltà. L'ingiustizia non conobbe responsabili ufficiali, anzi molti braccianti vennero denunciati per un processo lungo e inconcludente. Emerge una Chiesa parte di un rigido sistema politico, che forse anziché distinguere tra bisognosi e no, guardava alla tessera di partito, anche a Barletta.

LA BATANA GEMELA DE BARLETTA (bellissima storia raccontata da un profugo fiumano a Barletta)


di Fulvio Frezza

Come che gò scrito, la Batana FM 341 la era stada fata dal padre nel nostro fondo de Calle dei Facchini 9 e la era tuta pareciada cola vela che se te ciapa la bora quando che ti son fora - Dio ne guardi - ti se pol salvar solo cola vela e pogiando verso Cantrida. Guai ciapar el vento più streti metendo la prova sula Lanterna: al primo refolo la batana - cola colomba che la gaveva e col timon grando che gavevimo, che anca lui fazeva de colomba - la se gaveria ribaltado e alora sì che bisognava zigar "caffè" come nel giogo de Citavecia "zucaro-cafè" quando che ti se arendevi.
El padre ciapava el vento a tre quarti de gran lasco e così imbarcavimo meno aqua e quando che arivava el refolo lui lo vedeva sul mar e el pogiava ancora de più col timon. El padre el me dava sicureza: el tegniva la scota cola destra e la man sinistra sula argola del timon.
Per fortuna la mura la era regolada che la vela la fussi ben tesada in modo de far scampar fora el vento e la barca la rispondeva perfetamente ale manovre, ma lo stesso imbarcavimo mar che el sprizava dal fianco.
Mi ghe zigavo "Papà gò paura" e lui che taso. "Metise in zinocion e tiense con una man sul schermo e buta fora la aqua cola sessola" el zigava calmo lui.
E così arivavimo a Cantrida, amainavimo la vela e voga coi remi per tornar a casa imprecando el vento che ne gaveva fato scampar via. Ne era sucesso più volte.
La vela de coton la gaveva avudo un sbrego e el padre la la gaveva repezzà, che così sembrava come un numero I e noi cantavimo: "La vela numero uno, non la batte più nessuno".
La barca la era piturada de zenerin perché da noi in Porto era molta nafta e le barche le se sporcava fazile e così el sporco el se vedeva de meno.
Quando che finalmente el Padre gà ottenù dopo de due ricorsi al Consolato de Capodistria la opzion per l’ Italia, la FM 341 la xe restada là, forsi venduda de scondon a qualchedun.
El mio Vecio, de Udine smistamento, i lo ga mandà al Campo Profughi a Barletta, città de mar, e dopo de gaver domandà el permesso al Direttor del Campo, el gà comprado el material e el gà fato la gemela.
Lui el gaveva tute le misure intela sua testa e così la batana fiumana de 3 metri e ottanta la gà rivisto la luce col suo drito de prova, el specio de pupa, el tambucio, i due bancheti per sentarse, le rasme, le corbe, i madieri, i remi coi schermi e coi stropi, i pajoi e lui el te la gaveva piturado in stesso modo col zenerin e el ghe gaveva dado sul fondo el blak nero.
E anca la vela el ghe la gaveva fatto, cola scazza per la colomba, el albero e el timon cola argola, che così mi andavo a bordisar.
Propio un giorno che bordisavo con un mio amico - el grando imprenditor vinicolo Italo Folonari de Brescia, conossudo in tuto el mondo per i sui vini - i te me ciama de tera e xe i pompieri: "Che cossa i vol" ghe domando, e lori "Volemo solo la barca coi remi, e el paron che el vegni con noi" e che questo xe un ordine.
Detto e fatto, i imbarca barca, remi e mi su un camion e via con lori sul fiume Ofanto e là scominziemo a … pescar.
Più che un fiume, el Ofanto el sembrava un torente perchè el gaveva diverse seche e busi, che quando che stavo in aqua navigabile la barca la stava ferma o apena apena la se moveva, e quando che entravo nele seche te era maledeti vortisi e corente che fazevo fatica a remar per non esser portado via.
Mi ero sui remi e con mi in piedi sul tambucio de pupa, un pompier che el te butava una strana rede che vedevo per la prima volta: el mato la tegniva involtizada sula man e quando che la butava, la rede la ghe se apriva a ombrela per una largheza de un tre forsi quatro metri.
Dopo una mesa ora de tentativi, el pompier el gà ciapà quel che el zercava e lo gavemo portado sula riva. Era un povero putel de 14 anni che el maledeto gorgo del Ofanto lo gaveva fregado.

Intervista ad un profugo Giuliano-dalmata ospitato a Barletta





di Raffaele Giannone

Un’intervista a un profugo Giuliano-Dalmata di nome Elio Hersich, arrivato nel 1950 da Fiume e portato nel Centro Profughi di Barletta nella Caserma Ettore Fieramosca in via Manfredi.

 questa persona ora dovrebbe vivere a Vercelli. Si parla dell’esodo dai Balcani all’Italia durante e dopo il secondo conflitto mondiale. Erano circa 400 profughi arrivati a Barletta, quello che mi chiedo, ma sono andati tutti via o qualcuno si è fermato a Barletta, ad alcuni gli cambiarono anche il cognome.
L’intervista
Lei quindi arriva a Barletta e va in un campo profughi...
R.: "Mi ricordo che pioveva, e son venuti dei giovani a prenderci alla stazione, e con le due valige siamo arrivati al campo profughi. E lì era un vecchio monastero, ma non so quanti saremmo stati, dai 380 ai 450 conforme a quando c’era la piena, perché sa, e poi anche da lì si andava via. E lì ho fatto venti mesi, mai lavorato una giornata! Anzi no, ho lavorato cinque giornate, ma che non lo sappiano il direttore del campo, se non non mi davano il sussidio. E il sussidio era poi come una deca del militare, perché i primi tempi davano da mangiare, e dopo invece davano quel piccolo sussidio che dovevi farti da mangiare te. La mamma era andata a comperare uno di quei fornelli a petrolio, il Primus - e l'ho ancora giù in cantina - , mi ricordo, brutti ricordi."
38) E la vita di campo come funzionava?
R.: "Il campo era che dovevi avere delle regole: alle 10,00 di sera il portone si chiudeva, chi era dentro era dentro, chi era fuori era fuori. Poi si faceva la doccia una volta alla settimana; noi ci lavavamo perché andavamo al mare e tutte quelle cose lì, ma la doccia era obbligatoria [per] tutte le famiglie una volta alla settimana, prima [le] donne e poi gli uomini. C'era dentro un'infermeria, un piccolo negozio gestito dai profughi greci; c'era due greci e un turco, perché noi eravamo lì fiumani, zaratini, polesani, istriani, greci, turchi, polacchi e albanesi. C'era di tutto, e si conviveva: in una grande stanza, tre o quattro famiglie divise. Noi non da coperte, ma da brande: c’era due brande, una sopra all'altra, noi avevamo due brande. E lì si cucinava su questa Primus, come dire, un piccolo mobiletto e qualcosa così. E mio papà lavorava dentro [il campo]: lui visto che era un uomo capace, lo avevano preso come impiegato alla direzione, che lì c'era un direttore mandato da Roma e tutte quelle cose lì. Eravamo inquadrati bene per conto di quello lì. Anzi, il vicedirettore si chiamava Tito, e mio papà ha detto così: guardi, un Tito lascio e un altro trovo! Non vuol vedere, era dietro di lui e l'ha preso in cattivo occhio. Poi il papà aveva il compito di andare a prendere i medicinali e tutto quanto per l'infermeria che avevamo, e la mamma invece... Perché con quello che ci davano dentro non si poteva vivere, bisognava fare qualcosa: papà prendeva qualcosa di là, e la mamma, dato che le avevano trovato un posto, era da una signora di Udine, si chiamava M.-ese, che aveva una fabbrica di ghiaccio e confetti, e la mamma gli faceva da mangiare e gli lavava e gli stirava, perché quella lì era una grande signora. Usciva al mattino e rientrava al pomeriggio. E il genero, che era procuratore del tribunale di Trani, quando rientrava diceva: ah, si vede che oggi ha cucinato l'Elvira! Perché noi, non per dire, ma dalle nostre parti le donne sapevano fare da mangiare bene, perché la cucina da noi era slava, italiana, austriaca e ungherese, e allora le donne sapevano far da mangiare tutto."
39) Nel campo voi avevate qualche tipo di assistenza come ad esempio vestiti o pacchi dono?
R.: "No, no, niente, niente. Per conto di quelli là niente, da noi. So che non mi hanno neanche mai dato un paio di calze. Quello che avevamo è che dato che c'erano molti cinema a Barletta - mi ricordo il cinema Curci, Di Lillo, Paolillo, Eden - e allora cosa facevano sti signori, i padroni dei cinema? Davano tutte le sere cinque o sei biglietti per i profughi, ma cinque o sei di ogni cinema. E poi ti mettevi sulla bacheca fuori: guarda, sono fortunato, stasera vado al cinema! Perché non avevi i soldi neanche per il cinema, capisce?"
40) C'era quindi una specie di estrazione?
R.: "No estrazione, ti mettevano in lista, ma prima che andavi, su 350 o 400 persone, prima che ti arrivava il tuo turno era dura!"
41) Su Barletta le chiedo ancora due cose. Mi ha detto di aver lavorato, ma la gente lì dove andava a lavorare?
R.:"Campagne, tutto campagne. Lì non c'era un'industria, c'era la cementeria di Barletta e basta. Il resto eran tutti pescatori o campagne. Perché mi ricordo che vicino a noi - il campo era in via Manfredi 24 - partivano già alle 4 e mezza di mattina con quei camion dalle ruote grandi, sa, e andavano a lavorare nelle campagne. Poi quando ritornavano mangiavano -noi dicevamo- come gli indiani, perché avevano un piatto unico e mangiavano. Noi non eravamo abituati a vedere quelle cose, almeno uno, appena li vedeva diceva: ma che razza di gente è questa qui! Io non dico che Barletta era tutta quella cosa lì, ma la parte periferica dove che eravamo noi in campo, era proprio che li vedevi magiare con le mani, coi piatti grossi di alluminio. Cime di rapa con la pasta... Io non dico che tutta Barletta è così. Poi un'altra cosa: quando andavi in pescheria, che lì quando fanno i mercati fanno un casino da matti, mangiano il pesce crudo. E noi abituati alla buona cucina, vedevi quelle cose e ti meravigliavi, no?"
42) E quindi i profughi lavoravano anche loro nelle campagne?
R.: "No, no, i profughi erano solo profughi. Per un certo periodo mio papà aveva preso la disoccupazione, però poi sai, te la danno una volta e poi bom."
43) A Barletta la gente come vi ha accolto?
R.: "Ma, non male, io dico la verità Molti dicevano i profugacci, ma molti venivano... Perché dato che da noi si ballava... Lì invece per il corso, dove che vendevano ste radio, i dischi e quello lì che attaccavano la musica, vedevi ballare. Coppie di ragazzi con ragazzi, e noi guai, sa! Come le nostre ragazze quando andavano al mare, ci venivano a spiare, perché le sue andavano coi vestiti praticamente, e le nostre in costume. E molti ragazzi - quasi tutti i sabati si ballava da noi -, gli amici, ci siamo fatti delle amicizie anche a Barletta. Era brava gente, io non posso dire niente di male. Perché certiduni trovano da dire, ma dove sono andato io grazie a dio ho trovata brava gente. Barletta, io non posso dire niente di male."
44) La cosa interessante sulle ragazze l'ha detta lei in un certo senso adesso. Il fatto che le donne istriane fossero aperte, ed emancipate - forse più di quelle italiane - dava adito - e l'ho riscontrato in alcune testimonianze - ad apprezzamenti poco simpatici da parte dei locali, come quello che fossero di facili costumi...
R.: "Facili costumi, ma però bisognava provare! Può darsi che sia stato detto, ma tra il dire e il fare ci sta di mezzo il mare! Però, vede, quando venivano da noi dentro che si ballava, erano tutti contenti, perché loro guai! Lì mi trova giusto che loro - dato che guardano molto -, la mamma va al cinema con la figlia e il fidanzato, e poi molte le vedeva incinte. Perché le nostre ragazze erano libere, però avevano la testa. Invece quelle lì appena potevano gli scappava il peccato, inutile che le dica cosa facevano! Le nostre invece ragionavano, erano serie e brave ragazze. Prima di dartela sa, ci pensavano, invece quelle lì appena trovavano il momento, trac, gli scappava il figlio! Vede che roba?!"
45) Da Barletta lei viene poi a Vercelli...



Da manoscritti di profughi istriani ospiti a Barletta







di Fulvio Frezza

Barletta fine anni quaranta, profughi dalmati nella Caserma di via Manfredi, il racconto di Elio H.

[Quando siamo arrivati a Barletta] mi ricordo che pioveva e son venuti dei giovani a prenderci alla stazione, e con le due valige siamo arrivati al campo profughi. E lì era un vecchio monastero - il campo era in via Manfredi 4 - ma non so quanti saremmo stati, dai 380 ai 450 conforme a quando [c’]era la piena, perché poi anche da lì si andava via. E lì ho fatto venti mesi, mai lavorato una giornata! Anzi no, ho lavorato cinque giornate, ma che non lo sappiano il direttore del campo, se non non mi davano il sussidio! E il sussidio era poi come una deca del militare, perché i primi tempi davano da mangiare, e dopo invece davano quel piccolo sussidio che dovevi farti da mangiare te. La mamma era andata a comperare uno di quei fornelli a petrolio, il Primus. Il campo era che dovevi avere delle regole: alle 10,00 di sera il portone si chiudeva, chi era dentro era dentro, chi era fuori era fuori. Poi si faceva la doccia una volta alla settimana; noi ci lavavamo perché andavamo al mare, ma la doccia era obbligatoria [per ] tutte le famiglie una volta alla settimana, prima [le] donne e poi gli uomini. C’era dentro un’infermeria, un piccolo negozio gestito dai profughi greci; c’era due greci e un turco, perché noi eravamo lì fiumani, zaratini, polesani, istriani, greci, turchi, polacchi e albanesi. C’era di tutto, e si conviveva: in una grande stanza, tre o quattro famiglie divise. Noi non da coperte, ma da brande: [c’]era due brande, una sopra all’altra, noi avevamo due brande. E lì si cucinava su questa Primus, un piccolo mobiletto e qualcosa così. E mio papà lavorava dentro [il campo]: lui visto che era un uomo capace, lo avevano preso come impiegato alla direzione, che lì c’era un direttore mandato da Roma. [Poi c’era anche] il vicedirettore [che] si chiamava Tito, e mio papà ha detto così: guardi, un Tito lascio e un altro trovo! Perché con quello che ci davano dentro non si poteva vivere, bisognava fare qualcosa: papà prendeva qualcosa di là, e la mamma, dato che le avevano trovato un posto, era da una signora di Udine che aveva una fabbrica di ghiaccio e confetti e le faceva da mangiare, le lavava e le stirava. Usciva al mattino e rientrava al pomeriggio.
Elio H.

Da manoscritti di profughi Istriani ospitati a Barletta

Il Campo Profughi di Barletta racconto di Rodolfo Decleva


di Fulvio Frezza

Nel frattempo a Fiume erano sopravvenute le regole del Trattato di Pace di Parigi del 1947 che stabiliva che i residenti che non volevano diventare jugoslavi dovevano optare per la conservazione della cittadinanza italiana con l’obbligo di rimpatriare in Italia entro un anno. La mia famiglia esercitò questo diritto, ma per due volte l’opzione di mia madre fu respinta perché di lingua d’uso croata essendo lei nata a Lipa, un paese tra Fiume e Trieste dove si parlava anche il croato o lo sloveno. Così mio padre fece ricorso al Consolato Generale d’Italia di Capodistria che fu accolto al secondo tentativo nel 1950. Arrivati a Trieste, furono fatti proseguire per Udine dove c’era il Centro di smistamento che li destinò al Campo Profughi di Barletta.
In quei momenti sentivo molto la mancanza degli affetti familiari che mi erano mancati per quattro anni e decisi dopo qualche mese di rassegnare le dimissioni da Istitutore. Invano il Direttore Prof. Mario Pagliari cercò di trattenermi offrendomi il ruolo di Vice Direttore. La mia decisione era stata presa.
Arrivato al Campo, che era una vecchia Caserma dell’Esercito nel centro cittadino, trovai di guardia il signor Moffetti, fiumano, che mi fece tante feste.
Che gioia abbracciare i genitori e i fratelli e nel contempo dover soffocare la delusione del cambio di sistemazione abitativa dato che in Collegio disponevo di una bella luminosa cameretta e qui ero ammucchiato su un letto a castello in un box dell’ampia e buia soffitta della Caserma.
La grande superficie ricavata nel sottotetto della caserma era stata divisa in tanti piccoli box dove venivano sistemate due famiglie e a noi era toccato di dividere quel “quartierino” con la famiglia fiumana Prischich, con la quale eravamo già conoscenti a Fiume e andavamo molto d’accordo.
Ognuno nel suo piccolo era un “re” e due coperte da militare erano fissate su un cavo di acciaio che divideva a metà lo spazio del box. I letti a castello risparmiavano spazio prezioso ed i cassoni di legno che erano serviti a Fiume per il trasporto delle cianfrusaglie facevano da tavolo e da sistemazione del fornello elettrico o della “Primus” a petrolio, che servivano per cucinare. Fortunatamente fu in quel 1951 che a Barletta scoppiò il boom delle cucine a gas liquido Pibigas e mia madre poté così godere i vantaggi del progresso e buttare via quei fornelletti elettrici che spesso bruciavano le resistenze e ci lasciavano senza mangiare.
Fui preso in forza dal Direttore del Campo e ciò mi dava diritto ad un sussidio mensile di Lire 125 giornaliere e inoltre potevo fare ogni tanto qualche quindicina di giornate di lavoro straordinario per le necessità della struttura. Lavoro nella piazza di Barletta non ce n’era perché zona agricola e vinicola, e conseguentemente ogni tanto bisognava attingere ai propri magri risparmi o alla vendita di qualche oggetto prezioso, chi che lo aveva. Alcuni profughi erano fissi negli Uffici e il signor Moffetti era addirittura il Sovrintendente.
Essere arrivati nella Bassa Italia al contatto con le usanze comportamentali di una terra agricola sconosciute ai profughi della Venezia Giulia provocarono inizialmente uno shock, ma poi tutto si normalizzò: eravamo scappati dalla guerra e avevamo un tetto, e inoltre non c’era più la paura dei titini. Il Campo era molto comodo, ubicato nel pieno centro della città, la gente barlettana era molto semplice e molto buona; nel mercato c’era tanta verdura e ben di Dio, e nei banchi del pesce c’era tanto pesce a buon prezzo, anche se sempre coperto dalle mosche che non mancavano mai.
Quattro Cinema c’erano a Barletta e tutti e quattro regalavano alla Direzione del Campo tessere omaggio per entrare gratis nei giorni non festivi, e così i profughi piangevano per le storie strappalacrime del nostro Amedeo Nazzari e della Ivonne Sanson, o si erudivano con i film a colori per le musiche di Cole Porter e George Gerschwin.
Per l’Epifania veniva puntualmente un Dirigente della Prefettura di Bari accompagnato dal Sindaco di Barletta, che portavano i Pacchi-dono per i bambini e davano coraggio agli adulti.
Al sabato sera una sala era adibita per il ballo grazie a due radio che suonavano al massimo volume e – come sempre è stato e sempre sarà – c’era il contorno delle donne anziane, che ricordando i loro bei tempi passati non mancavano con i loro commenti. Uno spaccio interno gestito dai profughi da Rodi Egeo vendeva vino, gazzose e aranciate e tutti erano contenti.
Il sabato era una giornata importante perché era il giorno della doccia, che era distinta per donne e uomini, e il signor Moffetti era l’unico autorizzato ad entrare quando era il turno delle donne per regolare la temperatura dell’acqua, ma c’era chi si lamentava che ci “buttava” l’occhio.
Un’altra grande manovra capitava al sabato ed era la pulizia delle brande, dei letti, che essendo vuote dentro, erano rifugio per le cimici e la tecnica per estirparle era di versarci dentro il petrolio e dare fuoco. Ma la guerra contro le cimici non aveva mai fine e continuava anche di notte.
Grazie al DDT non si vedevano i pidocchi, così frequenti in tempo di guerra, salvo per gli scolari che ancora adesso se li passano l’un l’altro a scuola. Quando moriva un profugo, la salma veniva sistemata nella sala della doccia e al funerale non mancava nessuno.
Insieme con noi giuliani, in Campo erano ospitati anche profughi del nostro Impero d’Etiopia e italiani cacciati dalla Romania, oltre che i profughi da Patrasso, Rodi e Dodecanneso. Questi ultimi erano gente che aveva vissuto prima ancora a Smirne in Turchia e già allora avevano perso tutte le loro sostanze per causa della guerra fra greci e turchi.
Avevano creduto di ricominciare nel Dodecanneso italiano e invece gli capitò l’avversa sorte di subire il bis.
Fu tra questa bella gente che conobbi Anna Medini, colei che sarebbe divenuta mia moglie e che ho sempre definito la “Timoniera della mia vita”. Siamo vissuti per 58 anni nel bene e nel male e la celebrazione delle Nozze d’Oro nella chiesetta di Sussisa ha rappresentato uno dei momenti più felici nel tormentato finale della sua vita.
A Barletta ogni giornata passava monotona in attesa di qualcosa che cambiasse.
Io ero “studiato” e per questo la gente mi pregava di scrivere lettere di supplica agli Enti interessati affinché venissero riconosciuti i loro diritti per le pensioni, i danni di guerra, i beni abbandonati in Jugoslavia, i contributi INPS, la reversibilità della “Cooperativa Garibaldi” di Genova, che era stato un grande fallimento di risparmio marittimo.
Un caso scandaloso fra i tanti quello di una bambina di otto anni, orfana di guerra, alla quale il Giudice Tutelare aveva disposto di bloccare un fruttifero in banca fino alla sua maggiore età di 21 anni, il provento dell’assicurazione paterna finito poi mangiato dalla svalutazione.
Il Giudice, che stava a Civitanova Marche, richiedeva costosi atti notarili per concedere insignificanti prelievi per i libri di scuola e l’abbigliamento. Era la giustizia dei sordi verso chi aveva pagato con la vita l’amore di Patria.
Mi raccontò mio padre che appena arrivato al Campo, chiese in loco dove era più conveniente depositare una somma di denaro, frutto dei suoi magri risparmi. Siccome gli risposero che conveniva alla Posta perché il denaro era più sicuro che in Banca, lui fece il suo bravo deposito alla Posta.
Quando nella settimana successiva aveva bisogno di fare un prelievo, presentò il documento postale di riconoscimento con fotografia allo sportello e la sua sorpresa fu che l’impiegato non voleva eseguire l’operazione perché lui non lo conosceva. Insomma, mio padre doveva portargli una persona a lui conosciuta che garantisse che mio padre era veramente la persona titolare del conto.
Mio padre perse il lume della ragione e gli gridò: “Ma come, la settimana scorsa per prendere i miei soldi mi conoscevi, e oggi che li voglio ritirare dici di non conoscermi!”
Poi tutto si aggiustò quando mio padre minacciò di recarsi dai Carabinieri.
E così la nostra povera gente – una volta benestante e ora costretta a vivere con le cimici – si svegliava ogni giorno sperando di ricevere una buona notizia da Roma, Genova, Trieste, Rieka o Civitanova che la pratica era andata a posto e invece tutto continuava come prima o peggio di prima.
E mentre noi giovani vivevamo spensierati alla giornata, i nostri anziani vegetavano in silenzio e in disparte. Loro che avevano abbandonato tutti i sudori di una vita per venire in Italia, ora si accorgevano che avevano perso anche la dignità, mentre la loro salute cominciava a dare i primi allarmi.
Morivano di malinconia in casa d’altri avendo nel cuore la loro terra che non era più la loro.
La signorina Varin, fiumana e nubile, mi parlava sempre con orgoglio di una sua nipote pianista che aveva suonato in concerto a Milano la “Rapsodia in blu” di George Gerschwin; altri ricordavano le stagioni operistiche al nostro Teatro Verdi, mentre quelli di Patrasso – che si erano portati seco le chitarre greche – continuavano ugualmente a cantare in greco “O Kaimos” (Il dolore) come capita a noi quando cantiamo la croata “Tamo daleko”, quelle parole che tagliano il cuore e l’anima che vogliono dire “Là, lontano, oltre i monti e il mare. Là c’è la mia terra; là c’è il mio amore”. In questo ambiente ho studiato per quattro anni, di notte perché non era possibile farlo di giorno per la confusione che facevano oltre cento persone sistemate in quella grande camerata nel sottotetto senza soffitti, e combattendo contro le cimici che proprio di notte si mettevano in processione.
Mi trovavo in grande imbarazzo quando Italo Folonari – erede della famiglia dei Baroni del vino e compagno di Università - mi invitava nella sua bella casa di Barletta situata nella proprietà dove stavano i depositi vinari della Ditta paterna. Là ci preparavamo per gli esami e ce la spassavamo bene. Mio padre aveva costruito una battana a vela ormeggiata nel porto di Barletta e quando c’era bel vento andavamo a bordeggiare.
In alternativa, con la sua 500 “Palinuro” famosa per aver preso parte a varie Mille Miglia, andavamo a visitare i posti più belli del Gargano tra cui la Foresta Umbra, il Santuario di Monte Sant’Angelo e San Giovanni Rotondo con la leggenda di Padre Pio.
Nel 1954 mi sono laureato. Giusto in tempo perché un mese dopo hanno chiuso quel Campo Profughi e mi sono trasferito a Genova dove ho iniziato il nuovo round della mia vita.

Lettera di un Soldato





Ciao, amore.
Alla fine è successo, hai visto? Cazzo, non sarebbe dovuta finire così…
Sai perché ho scelto di fare il soldato? Di passare sei anni a spaccarmi la schiena per diventare un membro del Nono? Di farmi massacrare il corpo per diventare uno dei migliori soldati?
Per te.
Per te e per Alessandro.
Volevo darvi solo e solamente il meglio, che foste felici insieme, come in quella foto che mi porto sempre nel tascapane, sul cuore.
Sto cercando di prenderla, ma cazzo, un proiettile l’ha perforata!
Sento che le mie forze mi stanno lasciando: c’è più piombo in me che nello zaino di un pescatore…
Se solo penso a tutto ciò che non vedrò!
Le nostre nozze d’argento, magari d’oro. Il diploma e la laurea di Ale, la sua prima macchina, la sua prima volta con una ragazza… Il sentirmi chiamare nonno, lo stringere un nipote.
E tutti gli abbracci che non potrò mai dare a nostro figlio, l’amore che non potrò mai più donarti, le risate che non potrò mai più condividere con voi.
Dio, perché a me? Non ho mai ucciso nessuno, eppure oggi un uomo è venuto vicino a me con un mitra e ha sparato: a nulla è valso l’addestramento.
Ho pagato la colpa di voler essere solamente un buon padre e un buon marito: è un mondo ingiusto.
Chissà cosa diranno i pacifisti: che sono solo uno dei molti amanti della guerra morto chissà dove combattendo. Non si rendono conto che però siamo noi i primi a odiarla.
La guerra la puoi odiare solo se l’hai provata sulla pelle, se hai imbracciato un fucile e sparato contro altri uomini, se hai visto gli occhi terrorizzati di chi stava per morire e lo sapeva ma non voleva.
Combattiamo per far cessare i combattimenti: che assurdo mondo, questo!
E ora sono qui, appoggiato contro una jeep, il sole rovente in fronte, il fucile imbracciato, il sangue caldo che cola dai fori…
Eravamo in dieci, ma solo due torneranno a casa, domani.
C’erano fuoco e proiettili e morte ovunque mi girassi, la stessa morte che poi ha scelto me per il suo ultimo ballo.
Ecco, ormai sento gli arti farsi rigidi, il freddo mi sta lentamente assalendo.
Le palpebre sono pesanti.
Addio amore mio. Da’ un bacio all’Ale, fa’ sì che non si scordi di questo padre partito troppo presto: Luca Romanese, Tenente del Nono Reggimento Paracadutisti Incursori Col Moschin. Morto in servizio in zona ostile, portando con sé cinque nemici della pace.
Addio, amore.
Non cercare di raggiungermi.

L'ITALIA COLONIALE La prima guerra italo-etiopica


I primi rapporti con l’Etiopia in Italia furono messi in atto per via della fede. Infatti, dal XIII al XVII secolo, coraggiosi francescani fecero di queste terre una meta interessante al fine di portarvi la fede cattolica. A lungo missionari italiani percorsero quelle regioni, istituendovi un continuo contatto, tracciando itinerari, annotando una miriade di dati e ottenendo perfino la partecipazione di delegati abissini al Concilio di Firenze.
Rubattino-AssabFu proprio grazie ad un missionario, il savonese Giuseppe Sapeto, già famoso in Patria per le sue eccezionali doti d’esploratore, che l’Italia (gli italiani l’avevano fatto molto prima) mise piede in terra d’Africa. Era il 1869 quando il missionario di Savona sbarcò ad Aden per acquistare, per conto della compagnia di navigazione Raffaele Rubattino, una striscia di territorio. Purtroppo inglesi e francesi vi si erano già insediati. Non dandosi per vinto, il coraggioso esploratore navigò in lungo e in largo per giorni, finché attraccò nella baia di Assab, in Dancalia, comprando questo piccolo villaggio di pescatori dai capi locali. Assab verrà ricomprata anni dopo dal governo italiano che fino ad allora sembrava disinteressato a quella stazione marittima, ma tempo dopo, con l’invasione inglese e francese negli ambiti territori dell’Africa mediterranea, lo Stato prese in seria considerazione il territorio acquistato da Sapeto per trovare quello “spazio vitale” già trovato dalle altre potenze europee.“I missionari e gli esploratori consapevoli o no, fecero infatti da battistrada al colonialismo ottocentesco e la società gliene rese grande merito. Anche le truppe quando partivano per le imprese d’oltremare venivano osannate dalle folle, cantate dai poeti e benedette dai vescovi.”(1) L’Italia entrava così nella corsa alle colonie. Per la prima volta si cominciò a parlare della “missione di Roma” di civilizzazione della barbara Africa. Senza volerlo fu un altro esploratore a procurare al governo di Roma l’occasione per allargare i confini africani senza sganciare altri soldi: Gustavo Bianchi, così si chiamava, spintosi nelle sue ricerche nella vasta regione del Tigrè, nello sconosciuto Impero d’Abissinia, fu assalito da predoni dancali che trucidarono i suoi accompagnatori. Bianchi si salvò per miracolo. La notizia dell’assalto addolorò l’Italia intera che, bramando vendetta, decise di reagire, inviando in Africa ottocento bersaglieri al comando di Tancredi Saletta. Era il 5 febbraio del 1885.
Mentre la bella ma afosa Massaua si trasformava nella culla del colonialismo italiano, i coraggiosi bersaglieri si spinsero ad ovest, occupando Saati, Arkiko, Zula, Monkullo, Arafali, dove le innumerevoli tribù che popolavano quei territori, accettarono serenamente la nuova presenza italiana, che rappresentava una promessa di pace. Ma le località occupate confinavano con l’ignoto Impero d’Abissinia, dove l’imperatore, ilnegus Giovanni IV, vide in quella sgradita vicinanza una seria minaccia per il suo trono. Per suo conto, il bellicoso Ras Alula, signore dell’Hamasen, non rimase con le mani in mano, ed il 25 gennaio del 1887 attaccò con diecimila uomini il presidio italiano di Saati, ma fu respinto dagli eroici difensori dopo quattro ore di combattimento. Preoccupato dell’attacco abissino, il colonnello Saletta mandò sul posto una colonna al comando del tenente colonnello Tommaso De Cristoforis, composta da cinquecento bersaglieri e un centinaio di bashi-buzuk. Ma a metà strada, la colonna fu attaccata di sorpresa dagli uomini di Alula che, dopo averla circondata, vi si lanciarono agguerritamente. Ottomila abissini contro seicento italiani: fu un massacro. Prima di cadere, De Cristoforis, volgendo un ultimo pensiero alla Patria lontana, riunì i pochi soldati ancora in vita comandandovi di onorare i commilitoni caduti, presentando loro le armi. Il nome di quel colle, dove si salvarono solamente un’ottantina di soldati, abbandonati dal nemico che li credeva morti, resterà per decenni nella memoria italiana:Dogali. La disfatta produsse in Patria molto dolore, tanto che la Camera votò nuovi crediti inviando consistenti rinforzi. Comunque, seguirono due anni di relativa tranquillità, fino al giorno che giunse a Massaua il generale padovano Antonio Baldissera, “ l’austriaco ”, così chiamato per il suo passato da ufficiale nell’esercito asburgico. Si deve a lui il mutamento degli indisciplinati bashi-buzuk in soldati fieri e disciplinati, ribattezzandoli “ascari”. Scelse i migliori, selezionandoli tra le etnie più combattive, indipendentemente dalla loro fede religiosa. “Credano pure in ciò che vogliono – dirà – purché obbediscano e combattano.” Approfittando della morte del negus Giovanni IV, Baldissera, agevolato dalle guerriglie tra i vari ras che si contendevano l’ambito trono d’Abissinia, continuò l’avanzata verso ovest, allargando considerevolmente i confini italiani, sconfiggendo Alula ed occupando Asmara, che diventò la capitale della nostra prima colonia, l’Eritrea, annunciata dal capo del Governo italiano Francesco Crispi il 1 gennaio 1889.
La-conca-di-Adua_collezione_Mario-NobileA sud dell’Etiopia intanto, in Somalia, altri soldati erano sbarcati nella Costa dei Somali, conquistando il sultanato della Migiurtinia. Il trono del Leone di Giuda fu poi conquistato dal ras dello Scioà, che, grazie all’aiuto italiano, che lo avevano rifornito di denaro e munizioni, fu incoronato a Gondar mesi dopo, adottando il nome di Menelik II. Il nuovo negus firmò subito un trattato d’amicizia con gli italiani, che si impegnavano ad appoggiarlo nelle guerre contro gli altri ras (Trattato di Uccialli). Compiaciuto della situazione favorevole, Crispi, desideroso di trasformare l’Italia in una grande potenza coloniale, ordinò al generale Baldissera di continuare la sua marcia verso l’ovest. “L’austriaco” respinse più volte le richieste del presidente del Consiglio, finché quest’ultimo decise di sostituirlo e richiamarlo in Patria. Per un breve periodo l’Eritrea fu messa nelle mani del generale Baldassarre Orero, poi passò sotto la supervisione diOreste Baratieri, un generale dal passato garibaldino amico personale di Crispi, che, approdato in Africa, si apprestò ad assecondare le ambizioni coloniali di Roma. “Il primo screzio tra Roma e Addis Abeba – scrive Arrigo Petacco nel suo lavoro Faccetta nera – si registrò con la controversia sull’interpretazione dell’articolo 17 del trattato di Uccialli. Secondo Menelik, l’articolo stabiliva che il negus “può farsi rappresentare in Europa dall’Italia”, secondo Crispi che il negus “deve e consente di farsi rappresentare” In questo contesto le cose non poterono che peggiorare e non passò del tempo che i tamburi di guerra iniziarono a tuonare.
Come abbiamo già detto, il generale Baratieri non restò con le mani in mano: nell’autunno del 1894, dopo aver conquistato Cassala, in Sudan, mosse verso il Tigrè, la vasta regione abissina dove regnava Ras Mangascià, il ras che tempo prima aveva aiutato alcune tribù tigrine ad attaccare, in piccoli assalti, le postazioni italiane, distruggendo la sua armata e conquistando l’intera regione, guadagnandosi (e a ben merito) l’appellativo di “Napoleone d’Africa”. Gli echi del trionfo italiano provocarono non poche preoccupazioni ad Addis Abeba, dove il nuovo negus si vide costretto ad ordinare la mobilitazione generale. Fu in quegli anni che verranno scritte alcune delle pagine più gloriose della storia dell’esercito italiano, pagine che, purtroppo, non parleranno sempre di vittorie.
Una di queste pagine va dedicata al maggiore Pietro Toselli, coraggioso ufficiale piemontese, comandante di una colonna di ascari: un mattino d’inizio dicembre la sua colonna lasciò il villaggio di Maccalè, dove era acquartierata il resto dell’armata, per effettuare un giro di perlustrazione nelle vicinanze del lago Ascianghi, dove venne avvistata una grande armata nemica in avvicinamento. Gli abissini stavano rispondendo all’attacco. Il rapporto d’armi era impari, insostenibile per le forze italiane che ammontavano a milleseicento uomini. Gli abissini erano più di trentamila. Così il maggiore fu costretto ad arroccarsi sulle pendici di un amba, dove attese l’arrivo dei nemici. La battaglia iniziò il 5 dicembre 1895 e fu violentissima. Gli attaccanti, guidati daRas Macconen, comandante dell’armata imperiale, al quale si erano aggiunti i soldati di ras Alula e ras Mangascià, attaccarono con estrema brutalità il presidio tenuto dalle nostre forze indigene, che tennero duro e si difesero con valore. Ma il fuoco delle mitragliatrici non riuscì a sostenere la violenza delle orde africane che si lanciava avanti urlando. Verso l’una del pomeriggio, quando la battaglia ancora infuriava, il coraggioso maggiore, afono e ferito, disse al suo aiutante: “Non ne posso più. Ora mi volto e lascio che facciano” e così dicendo scomparve nella mischia. Il monte dove avvenne l’eroica resistenza dei nostri ascari portava il nome di Amba Alagi, rimasto indelebile nella storia della nostra Patria per il maggiore Toselli ed il fiero IV Battaglione Eritreo, che vi trovarono la morte.
Le-gole-di-Adua_collezione_Mario-NobileEliminata la minaccia dell’Amba Alagi gli abissini puntarono su Maccalè, dove una piccola guarnigione, composta da circa milletrecento uomini tra italiani ed ascari, comandata da un altro coraggioso ufficiale piemontese, il maggiorGiuseppe Galliano, era rimasta in presidio del villaggio. La massa scioana giunse innanzi al forte il 9 dicembre, ma non attaccò subito: restò immobile alle porte del villaggio, attendendo l’arrivo di altri uomini, aumentando consistentemente nel giro di pochi giorni. Nonostante i numerosi tentativi di Maconnen di indurre il piemontese ad arrendersi, Galliano non intendeva cedere il villaggio agli abissini che, la notte del 7 gennaio, iniziarono ad attaccare. L’assedio, che fu brutale, durò molti giorni, ma il peggior nemico degli italiani si rivelò la sete. Da giorni infatti il forte era a secco. Inviando inutilmente i suoi spericolati messaggeri per avvertire Baratieri dell’ostile situazione, Galliano si preparava ad affrontare la fine con onore. “E’ questione di ore, – dirà – poi il sacrificio.” Quella stessa sera, quando la situazione era ormai diventata insostenibile, riunendosi con i suoi ufficiali, decisero che il giorno successivo avrebbero fatto saltare il forte ed attaccato gli abissini. “Fu a questo punto – continua Arrigo Petacco – che entrò in scena un misterioso personaggio. Pietro Felter, un commerciante bresciano che viveva da tempo in Abissinia e godeva la piena fiducia di Maconnen. Felter si mise in contatto con Baratieri e si offrì come intermediario, poi, dopo complesse trattative, gli fece sapere che il ras, d’accordo con il suo negus, era disposto a liberare la guarnigione in cambio di un riscatto in denaro.” La cifra (esorbitante…) fu pagata personalmente dal Re Umberto I, all’insaputa dei difensori di Maccalè che continuavano ignari l’eroica resistenza. L’ordine di resa giunse al forte la sera del 19 gennaio. Nel leggere l’umiliante trattativa Galliano impallidì; altri ufficiali scoppiarono in lacrime. “Povera Italia” dirà lasciando il villaggio il fiero piemontese, che per l’eroismo dimostrato aveva ricevuto elogi dal re e dal Kaiser di Germania.
Adua_vista-da-sud_collezione_Mario-NobileSbaragliato anche il pericolo proveniente da Maccalè, gli abissini mossero verso l’Eritrea. Gli italiani, per contrastarli, si spinsero veroAdua. Fu proprio nei pressi di questo piccolo villaggio del Tigrè che si consumò la più grande sciagura dell’esercito italiano in terra d’Africa: la sera del 29 febbraio Baratieri spinse le sue armate, guidate da valorosi generali, quali Matteo Albertone, Giuseppe Arimondi, Vittorio Emanuele Dabormida e Giuseppe Ellena. Circa diciassettemila uomini in tutto, ma Menelik II era pronto a riceverlo. Fu all’alba del 1 marzo che iniziò la tragedia: la Brigata indigena guidata da Albertone, ingannata da una falsa indicazione topografica, capitò all’insaputa nel campo nemico, trovandosi imprigionata in un inferno abissino. Fu un massacro. Travolti gli ascari di Albertone, gli altri centomila guerrieri scioani si riversarono con violenza sulle altre brigate italiane. I combattimenti furono infuocati: italiani ed eritrei, benché inferiori di numero, si batterono da leoni, aprendo molti vuoti fra gli attaccanti, costringendo gli abissini a retrocedere. Solamente l’intervento della valorosa Guardia Imperiale lanciata dal negus sulle postazioni tenute dagli ascari mutò il corso della battaglia. Rimasta in piedi solamente la brigata del generale Arimondi, Baratieri vi inviò in soccorso il III indigeni di Galliano, gli eroici difensori di Maccalè. Ma ormai le sorti del combattimento erano decise. Questa catastrofe militare, passata alla storia come la “disfatta di Adua”, all’Italia costò cinquemila morti metropolitani, compresi gli impavidi ufficiali: Albertone fu fatto prigioniero; Arimondi, ferito al ginocchio, continuando il combattimento con la spada sguainata, perì sommerso da una violenta marea umana abissina; anche Dabormida era caduto; quanto a Galliano, non se ne seppe più nulla.
Busto_Pietro-Toselli-Roma_foto Claudia-ForgioneCome in precedenza per Toselli, la sua morte era destinata ad entrare nella leggenda. I due eroi piemontesi, divenuti simbolo dell’eroismo italiano in terra d’Africa, solennizzati durante il ventennio fascista, sono oggi dimenticati dalla memoria nazionale, cancellati dai libri di storia ed obliati dalla Patria per cui diedero coraggiosamente la vita. A Roma, in via Lepanto, innanzi alla caserma Nazario Sauro, due busti di bronzo eretti più di cento anni fa, posti l’uno di fronte all’altro e riportanti i maschi visi dei due ufficiali, rappresenta l’unico gesto di riconoscimento presente nella capitale in ricordo dei due martiri. Vale la pena riportare la frase scritta sotto il busto dell’eroe dell’Alagi:
AL MAGGIORE
PIETRO TOSELLI
IL QUALE NOVELLO LEONIDA
CADDE SULL’AMBA ALAGI
PER L’ONORE DELLA PATRIA
SENTENDO
NELLA DEVOZIONE AL DOVERE
LA PIU’ PURA POESIA DEL VIVERE MILITARE
Agli ascari andò peggio, anche se le vittime riportate furono minori rispetto a quelle italiane (milleseicento morti). Il giorno successivo alla battaglia di Adua, il negus ordinò che agli ascari di provenienza tigrina catturati, considerati disertori della causa etiopica, subissero l’agghiacciante mutilazione della mano destra e del piede sinistro, in modo che non potessero mai più combattere. Di questi, solamente quattrocentosei riuscirono, trascinandosi faticosamente, a raggiungere l’Eritrea. La notizia della disfatta giunse in Italia la notte del 2 marzo, provocando chiaramente immensi clamori in Patria e all’estero: per la prima volta nella storia un esercito “bianco” veniva sconfitto da un esercito “nero”; per la prima volta nella storia una nazione europea aveva dovuto chinare il capo ad una nazione africana.
La pace tra Roma ed Addis Abeba fu firmata il 26 ottobre dello stesso anno, stipulando “[…] pace ed amicizia perpetua fra S. M. il Re d’Italia e l’Imperatore d’Etiopia, come tra i loro successori e sudditi – e precisando che – l’Italia riconosce l’indipendenza assoluta dell’Impero d’Etiopia come stato sovrano.” Al trattato seguiranno diversi accordi bilaterali che stabilivano il confine tra l’Abissinia e le colonie italiane (Eritrea e Somalia). Incomprensibilmente la linea di confine con i territori somali non venne mai tracciata ed un vastissimo territorio dell’Ogaden restò per anni terra di nessuno. Con convenzione aggiuntiva al trattato venivano liberati, dietro pagamento, i prigionieri trattenuti in Abissinia. Si dice che “l’africanista” Regina Margherita, in uno scatto d’orgoglio patriottico, dichiarò: “I prigionieri si riscattano con il piombo e non con l’oro.”
di Antonio Valerio Fontana - © Tutti i diritti riservati
Note
(1) Arrigo Petacco, Faccetta nera, Milano, Mondadori, 2003
Foto – Busto di Pietro Toselli a Roma, foto di Claudia Forgione
Immagini di Adua dalla collezione di Mario Nobile