I primi rapporti con l’Etiopia in Italia furono messi in atto per via della fede. Infatti, dal XIII al XVII secolo, coraggiosi francescani fecero di queste terre una meta interessante al fine di portarvi la fede cattolica. A lungo missionari italiani percorsero quelle regioni, istituendovi un continuo contatto, tracciando itinerari, annotando una miriade di dati e ottenendo perfino la partecipazione di delegati abissini al Concilio di Firenze.
Mentre la bella ma afosa Massaua si trasformava nella culla del colonialismo italiano, i coraggiosi bersaglieri si spinsero ad ovest, occupando Saati, Arkiko, Zula, Monkullo, Arafali, dove le innumerevoli tribù che popolavano quei territori, accettarono serenamente la nuova presenza italiana, che rappresentava una promessa di pace. Ma le località occupate confinavano con l’ignoto Impero d’Abissinia, dove l’imperatore, il
negus Giovanni IV, vide in quella sgradita vicinanza una seria minaccia per il suo trono. Per suo conto, il bellicoso
Ras Alula, signore dell’Hamasen, non rimase con le mani in mano, ed il
25 gennaio del 1887 attaccò con diecimila uomini il presidio italiano di Saati, ma fu respinto dagli eroici difensori dopo quattro ore di combattimento. Preoccupato dell’attacco abissino, il colonnello Saletta mandò sul posto una colonna al comando del tenente colonnello
Tommaso De Cristoforis, composta da cinquecento bersaglieri e un centinaio di bashi-buzuk. Ma a metà strada, la colonna fu attaccata di sorpresa dagli uomini di Alula che, dopo averla circondata, vi si lanciarono agguerritamente. Ottomila abissini contro seicento italiani: fu un massacro. Prima di cadere, De Cristoforis, volgendo un ultimo pensiero alla Patria lontana, riunì i pochi soldati ancora in vita comandandovi di onorare i commilitoni caduti, presentando loro le armi. Il nome di quel colle, dove si salvarono solamente un’ottantina di soldati, abbandonati dal nemico che li credeva morti, resterà per decenni nella memoria italiana:
Dogali. La disfatta produsse in Patria molto dolore, tanto che la Camera votò nuovi crediti inviando consistenti rinforzi. Comunque, seguirono due anni di relativa tranquillità, fino al giorno che giunse a Massaua il generale padovano
Antonio Baldissera, “ l’austriaco ”, così chiamato per il suo passato da ufficiale nell’esercito asburgico. Si deve a lui il mutamento degli indisciplinati bashi-buzuk in soldati fieri e disciplinati, ribattezzandoli “ascari”. Scelse i migliori, selezionandoli tra le etnie più combattive, indipendentemente dalla loro fede religiosa. “Credano pure in ciò che vogliono – dirà – purché obbediscano e combattano.” Approfittando della morte del negus Giovanni IV, Baldissera, agevolato dalle guerriglie tra i vari ras che si contendevano l’ambito trono d’Abissinia, continuò l’avanzata verso ovest, allargando considerevolmente i confini italiani, sconfiggendo Alula ed occupando Asmara, che diventò la capitale della nostra prima colonia, l’Eritrea, annunciata dal capo del Governo italiano
Francesco Crispi il 1 gennaio 1889.
A sud dell’Etiopia intanto, in Somalia, altri soldati erano sbarcati nella
Costa dei Somali, conquistando il sultanato della Migiurtinia. Il trono del Leone di Giuda fu poi conquistato dal ras dello Scioà, che, grazie all’aiuto italiano, che lo avevano rifornito di denaro e munizioni, fu incoronato a Gondar mesi dopo, adottando il nome di
Menelik II. Il nuovo negus firmò subito un trattato d’amicizia con gli italiani, che si impegnavano ad appoggiarlo nelle guerre contro gli altri ras (
Trattato di Uccialli). Compiaciuto della situazione favorevole, Crispi, desideroso di trasformare l’Italia in una grande potenza coloniale, ordinò al generale Baldissera di continuare la sua marcia verso l’ovest. “L’austriaco” respinse più volte le richieste del presidente del Consiglio, finché quest’ultimo decise di sostituirlo e richiamarlo in Patria. Per un breve periodo l’Eritrea fu messa nelle mani del generale
Baldassarre Orero, poi passò sotto la supervisione di
Oreste Baratieri, un generale dal passato garibaldino amico personale di Crispi, che, approdato in Africa, si apprestò ad assecondare le ambizioni coloniali di Roma. “Il primo screzio tra Roma e Addis Abeba – scrive Arrigo Petacco nel suo lavoro
Faccetta nera – si registrò con la controversia sull’interpretazione dell’articolo 17 del trattato di Uccialli. Secondo Menelik, l’articolo stabiliva che il negus “può farsi rappresentare in Europa dall’Italia”, secondo Crispi che il negus “deve e consente di farsi rappresentare” In questo contesto le cose non poterono che peggiorare e non passò del tempo che i tamburi di guerra iniziarono a tuonare.
Come abbiamo già detto, il generale Baratieri non restò con le mani in mano: nell’autunno del 1894, dopo aver conquistato Cassala, in Sudan, mosse verso il Tigrè, la vasta regione abissina dove regnava
Ras Mangascià, il ras che tempo prima aveva aiutato alcune tribù tigrine ad attaccare, in piccoli assalti, le postazioni italiane, distruggendo la sua armata e conquistando l’intera regione, guadagnandosi (e a ben merito) l’appellativo di “Napoleone d’Africa”. Gli echi del trionfo italiano provocarono non poche preoccupazioni ad Addis Abeba, dove il nuovo negus si vide costretto ad ordinare la mobilitazione generale. Fu in quegli anni che verranno scritte alcune delle pagine più gloriose della storia dell’esercito italiano, pagine che, purtroppo, non parleranno sempre di vittorie.
Una di queste pagine va dedicata al maggiore
Pietro Toselli, coraggioso ufficiale piemontese, comandante di una colonna di ascari: un mattino d’inizio dicembre la sua colonna lasciò il villaggio di Maccalè, dove era acquartierata il resto dell’armata, per effettuare un giro di perlustrazione nelle vicinanze del lago Ascianghi, dove venne avvistata una grande armata nemica in avvicinamento. Gli abissini stavano rispondendo all’attacco. Il rapporto d’armi era impari, insostenibile per le forze italiane che ammontavano a milleseicento uomini. Gli abissini erano più di trentamila. Così il maggiore fu costretto ad arroccarsi sulle pendici di un amba, dove attese l’arrivo dei nemici. La battaglia iniziò il 5 dicembre
1895 e fu violentissima. Gli attaccanti, guidati da
Ras Macconen, comandante dell’armata imperiale, al quale si erano aggiunti i soldati di ras Alula e ras Mangascià, attaccarono con estrema brutalità il presidio tenuto dalle nostre forze indigene, che tennero duro e si difesero con valore. Ma il fuoco delle mitragliatrici non riuscì a sostenere la violenza delle orde africane che si lanciava avanti urlando. Verso l’una del pomeriggio, quando la battaglia ancora infuriava, il coraggioso maggiore, afono e ferito, disse al suo aiutante: “Non ne posso più. Ora mi volto e lascio che facciano” e così dicendo scomparve nella mischia. Il monte dove avvenne l’eroica resistenza dei nostri ascari portava il nome di
Amba Alagi, rimasto indelebile nella storia della nostra Patria per il maggiore Toselli ed il fiero IV Battaglione Eritreo, che vi trovarono la morte.
Eliminata la minaccia dell’Amba Alagi gli abissini puntarono su Maccalè, dove una piccola guarnigione, composta da circa milletrecento uomini tra italiani ed ascari, comandata da un altro coraggioso ufficiale piemontese, il maggior
Giuseppe Galliano, era rimasta in presidio del villaggio. La massa scioana giunse innanzi al forte il 9 dicembre, ma non attaccò subito: restò immobile alle porte del villaggio, attendendo l’arrivo di altri uomini, aumentando consistentemente nel giro di pochi giorni. Nonostante i numerosi tentativi di Maconnen di indurre il piemontese ad arrendersi, Galliano non intendeva cedere il villaggio agli abissini che, la notte del 7 gennaio, iniziarono ad attaccare. L’assedio, che fu brutale, durò molti giorni, ma il peggior nemico degli italiani si rivelò la sete. Da giorni infatti il forte era a secco. Inviando inutilmente i suoi spericolati messaggeri per avvertire Baratieri dell’ostile situazione, Galliano si preparava ad affrontare la fine con onore. “E’ questione di ore, – dirà – poi il sacrificio.” Quella stessa sera, quando la situazione era ormai diventata insostenibile, riunendosi con i suoi ufficiali, decisero che il giorno successivo avrebbero fatto saltare il forte ed attaccato gli abissini. “Fu a questo punto – continua Arrigo Petacco – che entrò in scena un misterioso personaggio.
Pietro Felter, un commerciante bresciano che viveva da tempo in Abissinia e godeva la piena fiducia di Maconnen. Felter si mise in contatto con Baratieri e si offrì come intermediario, poi, dopo complesse trattative, gli fece sapere che il ras, d’accordo con il suo negus, era disposto a liberare la guarnigione in cambio di un riscatto in denaro.” La cifra (esorbitante…) fu pagata personalmente dal
Re Umberto I, all’insaputa dei difensori di Maccalè che continuavano ignari l’eroica resistenza. L’ordine di resa giunse al forte la sera del 19 gennaio. Nel leggere l’umiliante trattativa Galliano impallidì; altri ufficiali scoppiarono in lacrime. “Povera Italia” dirà lasciando il villaggio il fiero piemontese, che per l’eroismo dimostrato aveva ricevuto elogi dal re e dal Kaiser di Germania.
Sbaragliato anche il pericolo proveniente da Maccalè, gli abissini mossero verso l’Eritrea. Gli italiani, per contrastarli, si spinsero vero
Adua. Fu proprio nei pressi di questo piccolo villaggio del Tigrè che si consumò la più grande sciagura dell’esercito italiano in terra d’Africa: la sera del 29 febbraio Baratieri spinse le sue armate, guidate da valorosi generali, quali Matteo Albertone, Giuseppe Arimondi, Vittorio Emanuele Dabormida e Giuseppe Ellena. Circa diciassettemila uomini in tutto, ma Menelik II era pronto a riceverlo. Fu all’alba del 1 marzo che iniziò la tragedia: la Brigata indigena guidata da Albertone, ingannata da una falsa indicazione topografica, capitò all’insaputa nel campo nemico, trovandosi imprigionata in un inferno abissino. Fu un massacro. Travolti gli ascari di Albertone, gli altri centomila guerrieri scioani si riversarono con violenza sulle altre brigate italiane. I combattimenti furono infuocati: italiani ed eritrei, benché inferiori di numero, si batterono da leoni, aprendo molti vuoti fra gli attaccanti, costringendo gli abissini a retrocedere. Solamente l’intervento della valorosa Guardia Imperiale lanciata dal negus sulle postazioni tenute dagli ascari mutò il corso della battaglia. Rimasta in piedi solamente la brigata del generale Arimondi, Baratieri vi inviò in soccorso il III indigeni di Galliano, gli eroici difensori di Maccalè. Ma ormai le sorti del combattimento erano decise. Questa catastrofe militare, passata alla storia come la “
disfatta di Adua”, all’Italia costò cinquemila morti metropolitani, compresi gli impavidi ufficiali: Albertone fu fatto prigioniero; Arimondi, ferito al ginocchio, continuando il combattimento con la spada sguainata, perì sommerso da una violenta marea umana abissina; anche Dabormida era caduto; quanto a Galliano, non se ne seppe più nulla.
Agli ascari andò peggio, anche se le vittime riportate furono minori rispetto a quelle italiane (milleseicento morti). Il giorno successivo alla battaglia di Adua, il negus ordinò che agli ascari di provenienza tigrina catturati, considerati disertori della causa etiopica, subissero l’agghiacciante mutilazione della mano destra e del piede sinistro, in modo che non potessero mai più combattere. Di questi, solamente quattrocentosei riuscirono, trascinandosi faticosamente, a raggiungere l’Eritrea. La notizia della disfatta giunse in Italia la notte del 2 marzo, provocando chiaramente immensi clamori in Patria e all’estero: per la prima volta nella storia un esercito “bianco” veniva sconfitto da un esercito “nero”; per la prima volta nella storia una nazione europea aveva dovuto chinare il capo ad una nazione africana.
La pace tra Roma ed Addis Abeba fu firmata il 26 ottobre dello stesso anno, stipulando “[…] pace ed amicizia perpetua fra S. M. il Re d’Italia e l’Imperatore d’Etiopia, come tra i loro successori e sudditi – e precisando che – l’Italia riconosce l’indipendenza assoluta dell’Impero d’Etiopia come stato sovrano.” Al trattato seguiranno diversi accordi bilaterali che stabilivano il confine tra l’Abissinia e le colonie italiane (Eritrea e Somalia). Incomprensibilmente la linea di confine con i territori somali non venne mai tracciata ed un vastissimo territorio dell’Ogaden restò per anni terra di nessuno. Con convenzione aggiuntiva al trattato venivano liberati, dietro pagamento, i prigionieri trattenuti in Abissinia. Si dice che “l’africanista” Regina Margherita, in uno scatto d’orgoglio patriottico, dichiarò: “I prigionieri si riscattano con il piombo e non con l’oro.”