mercoledì 29 aprile 2015

«I nazisti mi torturavano col calcio del fucile»

Antonio Fucci, ex partigiano barlettano, racconta la sua lotta



«Avrei dovuto essere impiccato col filo spinato». Antonio Fucci, in visita con la sua famiglia a Barletta, dove ogni tanto torna per rivedere i luoghi della sua gioventù. Antonio nasce il 23 gennaio 1926, a 18 anni sceglie la lotta partigiana. Una scelta che suo padre, il generale Ettore Fucci, condivise in pieno:«Mio padre Ettore si trovava in Corsica a combattere i nazisti ma, quando seppe della mia decisione, ne fu fiero». Incontro Antonio, sua moglie Costanza Savino e la loro figlia Stefania, in compagnia di Ruggiero Graziano, presidente dell'ANMIG – Barletta, poco prima di essere ricevuti dal sindaco Pasquale Cascella e dal prefetto, dott.ssa Clara Minerva. In occasione del 25 aprile, festa di liberazione, ricordiamo anche i fratelli partigiani Vitrani e Ventrella e Giuseppe Sfregola .

Sig. Fucci, quando scelse la lotta partigiana?
«Il 13 giugno 1944 avevo 18 anni, era il mio onomastico. In quel periodo, con la mia famiglia, vivevamo in Toscana, mio padre Ettore combatteva in Corsica, contro i nazisti. Ricevetti la cartolina di arruolamento della Repubblica Sociale, avrei dovuto entrare nelle milizie di Salò; chiunque si fosse rifiutato, avrebbe subìto ritorsioni per se e per la propria famiglia. Io ero anti-fascista, creai una messinscena: comprai il biglietto ferroviario per Lucca, incontrai un mio professore di scuola, un fervente fascista, riferendogli che sarei entrato nell'esercito di Salò. Invece, scappai sulle Alpi Apuane, dove mi unii ad una formazione partigiana. Mio padre mi fece avere una "Beretta" calibro 9, con relative munizioni».

Che tipo di formazione partigiana?
«Era una formazione autonoma, slegata dalla politica, comandata Paolo Cavalli, un ufficiale di artiglieria».

Quali compiti aveva la vostra formazione partigiana?
«Noi effettuavamo "azioni di disturbo": fare saltare le linee di comunicazione. Sulle Alpi Apuane, abbiamo fatto saltare in aria un ponte, di importanza strategica per i nazi-fascisti. La vita era dura per noi, dormivamo dove capitava, spesso all'aperto nei boschi, fino a quando non mi hanno catturato».

Quando fu catturato?
«Fui catturato durante un rastrellamento nazifascista, mentre mi trovavo a Val di Castello, un paese vicino S. Anna di Stazzena, dove era appena stata compiuta una terribile strage ad opera dei nazi-fascisti. Catturarono me e tanti altri, portandoci a Nozzano, vicino Lucca. Fummo condotti e imprigionati nella scuola elementare del paese, adibita a prigione, un luogo di orrori. La mia cella era schizzata da macchie di sangue. Tra i carnefici, c'erano i fascisti repubblichini».

Ha subìto violenze, durante la prigionia?
«Durante gli interrogatori, nel tentativo di estorcermi informazioni, i nazisti mi torturavano, picchiandomi ripetutamente col calcio del fucile, sulle spalle, ma non ho parlato. Ad altri compagni di prigionia è andata peggio. Noi prigionieri eravamo usati come manovalanza, in campagna. Negli intervalli dal lavoro, mi rinchiudevano nella stalla coi maiali, costringendomi a stare a quattro zampe. I fascisti e i nazisti si divertivano anche in questa maniera sadica».



Cosa successe, dopo gli interrogatori?
«Noi prigionieri fummo divisi in due gruppi: un gruppo sarebbe dovuto rimanere in Italia, l'altro gruppo sarebbe partito per la Germania. I tedeschi erano bugiardi, poiché – come ho saputo in seguito – i prigionieri destinati in Germania, furono giustiziati, tramite impiccagione col filo spinato, e appesi sulla pubblica piazza in Garfagnana. Io avrei dovuto seguire la loro stessa sorte, ma riuscii ad evadere, approfittando di una distrazione delle guardie, mentre ero a lavoro nei campi. La mia prigionia durò una settimana».

Dove scappò?
«Tornai a casa, vivendo nascosto in una stretta intercapedine. Ho vissuto in questa intercapedine per due mesi, mia madre mi portava da mangiare. Dopo due mesi di quella vita, diventai claustrofobico. La mia lotta partigiana durò tutta l'estate del 1944, poi arrivarono gli alleati».

Dopo la guerra, ha rivisto i suoi compagni partigiani?
«Ho rivisto Paolo Cavalli e due francesi, disertori dell'esercito nazista, entrati nella nostra formazione. Questi francesi, in origine erano prigionieri dei nazisti, arruolati forzatamente nell'esercito tedesco, con la promessa di una vita migliore. Alcuni compagni della mia formazione partigiana, sono morti in azione. In quella formazione partigiana, ero il più giovane».

Signor Fucci, dopo la guerra, cosa ha fatto?
«Mi sono rimesso a studiare, laureandomi in economia e commercio. Sono entrato nell'Agip di Enrico Mattei, girando l'Italia per lavoro, fino a quando fui promosso capo - ufficio. Fin quando c'è stato Mattei alla guida dell'Agip, le cose andavano benissimo, vigeva la meritocrazia. Dopo la morte di Mattei (deceduto in un incidente aereo nel 1962 –ndr), l'Agip finì in pasto alla politica, tra raccomandazioni di qualunque tipo. Enrico Mattei era un grande uomo, una persona positiva. Dopo la sua morte, lasciai l'Agip e mi lanciai nel settore turistico, con un progetto nel Cilento».

Le piace questa Italia per cui ha combattuto?
«Questa Italia mi piace poco, a causa della degenerazione della politica, che è diventata un mezzo per guadagnare velocemente denaro. Ai miei tempi, gli ideali erano differenti».

Signor Fucci, cosa pensa dei neofascisti di oggi?
«I neofascisti ignorano cosa sia stato il fascismo, che io ho vissuto. Benito Mussolini, con le sue pose istrioniche, era un personaggio ridicolo! ».

«Mussolini era un avventuriero pazzo»

Il ricordo del generale Ettore Fucci, nelle parole di suo figlio Antonio



di Tommaso Francavilla

Ritrovare la memoria dei padri, nel ricordo dei loro figli. E' il caso del bersagliere Ettore Fucci, cittadino barlettano che ha combattuto nelle due guerre mondiali, ricoprendo l'incarico di comandante del Corpo Italiano di Liberazione (CIL) nell'ultima guerra. Alla vigilia della festa della Liberazione, suo figlio Antonio, 89enne, ex partigiano, ci racconta qualche aneddoto del suo illustre padre. Incontriamo Antonio Fucci, sua moglie Costanza Savino e la loro figlia Stefania, in visita a Barletta, dove sono stati ricevuti dal sindaco Pasquale Cascella e dal prefetto dott.ssa Clara Minerva.

Ettore Fucci andò via da Barletta, ventenne, come bersagliere semplice, per combattere nelle trincee della prima guerra mondiale, attraversando molteplici campagne militari fino a diventare generale di corpo d'armata, durante la seconda guerra mondiale. Ruggiero Graziano, presidente della locale sezione ANMIG, ha accolto la famiglia Fucci a Barletta, decidendo di cointitolare la locale sezione ANMIG al generale Ettore Fucci.

Immancabili alcune domande ad Antonio Fucci che, oltre ad essere imparentato con la famiglia Cafiero (sua madre si chiamava Fortunata Cafiero ), è cugino dei fratelli Casardi e del barlettano Alfredo Reichlin, ex dirigente nazionale del PCI.

Suo padre Ettore ha partecipato alla prima guerra mondiale. Le raccontava aneddoti particolari sulla Grande Guerra?
«Vide un soldato austriaco che lo stava sparando, si buttò per terra, ma il proiettile lo raggiunse poco sopra il cuore, rimase a terra, privo sensi e fu fatto prigioniero. Gli Austriaci lo catturarono e lo portarono a Mathausen. Dopo poco tempo, la guerra si concluse e fu liberato. Noi conserviamo quella divisa con il buco del proiettile. Mio padre considerava quella guerra un macello di sangue, ma è sempre stato in prima linea, anche nelle campagne militari successive, coi suoi soldati. Ha sempre rispettato il nemico, pur trovandosi in situazioni rischiose».

Ettore Fucci ha combattuto nello stesso battaglione del bersagliere Enrico Toti.
«Si, comandava la stessa compagnia di Enrico Toti. A Roma, presso il museo dei bersaglieri, è esposta un foto che ritrae mio padre con Enrico Toti».

Aveva un porta-fortuna, da portare in battaglia?
«Si, sua madre gli regalò un fazzoletto tricolore, che lui ha portato sempre con se, in tutte le battaglie. Lo conserviamo tuttora».
Suo padre Ettore ha combattuto nella guerra di Spagna?
«Si, entrò clandestinamente in Spagna, con un passaporto falso e vi rimase per tutta la durata della guerra (1937- 39). Comandava la divisione "Frecce Azzurre":un corpo di volontari».

Il generale Fucci stimava Benito Mussolini?
«Lo riteneva un pazzo avventuriero. Mio padre è stato sempre anti-fascista, sebbene avesse dovuto partecipare alle campagne militari ideate da Mussolini, per evitare pericolose ritorsioni. Infatti, dopo l'8 settembre, il reparto di Ettore Fucci è stato l'unico che ha battuto i nazisti in Corsica. Poi, fu convocato dal Governo Badoglio per creare una unità di combattimento, il "Corpo Italiano di Liberazione" (CIL), costituito da due brigate. Mio padre comandava la prima brigata e fu vice comandante del CIL; il comandante era il generale Umberto Utili. Hanno combattuto sul versante adriatico e liberato molti paesi dagli occupanti nazisti, come ad esempio l'Aquila».

Un aneddoto di quelle battaglie?
«La brigata doveva conquistare una obiettivo strategico, ben difeso dai nazisti. Quando i nazisti si sono accorti che erano quegli stessi bersaglieri che li avevano battuti in Corsica, se la diedero a gambe! Il generale tedesco Rommel disse:" Il soldati tedeschi hanno stupito il mondo, i bersaglieri hanno stupito i soldati tedeschi!"».

Come avvenne e dove saltò sulla mina, che lo mutilò?
«Nel settembre 1944 sul versante adriatico, durante una ricognizione in prima linea con una jeep, saltò su una mina anticarro. Sulla jeep c'erano anche il suo attendente e l' autista, che non ebbero gravi conseguenze. Fu operato all' ospedale da campo americano, subendo l'amputazione della gamba all'altezza della coscia sinistra, riportò anche la frattura del malleolo della gamba destra e la frattura di una vertebra cervicale. In seguito, gli fu applicata una protesi e camminava aiutandosi con dei bastoni. Per la convalescenza, si trasferì a Barletta, presso il palazzo Cafiero (Corso Vittorio Emanuele). Restammo a Barletta fino al 1948, per poi trasferirci definitivamente a Napoli, dove è deceduto il 22 novembre 1980».

Suo padre Ettore, si è sentito dimenticato dalla città Barletta? 
«Non credo si sia sentito dimenticato da Barletta, non si è mai lamentato in questo senso, ha fatto il suo dovere e non si aspettava niente altro, era molto riservato e non amava le manifestazioni pubbliche.
Parlava spesso di Barletta, ricordando quando era giovane e viveva li».

Sig. Fucci, come è venuto a conoscenza dell'articolo su suo padre, pubblicato su BarlettaViva?
«Sono venuto a conoscenza dell' articolo su Barletta Viva, tramite uno dei miei figli, Ettore, che vive in Canada, digitando su Google. Colgo l' occasione per ringraziarvi per l' affetto e l' ammirazione che avete per il generale Ettore Fucci».

«Mussolini era un avventuriero pazzo»
Il generale Ettore Fucci sposò Fortunata Cafiero, da cui ebbe quattro figli: Rosa, Stefania, Maris e Antonio. Antonio Fucci è sposato con Costanza Savino e ha tre figli: Stefania e Vito (residenti ad Amsterdam), Ettore (residente in Canada).

Il Corpo Italiano di Liberazione (CIL) fu un contingente di truppe italiane regolari che, costituito il 18 aprile 1944, fiancheggiò le operazioni degli alleati (soprattutto del V Corpo britannico e del II Corpo polacco) contro i tedeschi. Operò sulle pendici nord-orientali delle Mainarde molisane, nelle alte valli del Volturno e del Sangro, poi nel settore adriatico fino a Urbino. Fu protagonista delle conquiste del Monte Marrone e del Monte Cavallo, e di quella di Filottrano. Fu disciolto il 24 settembre 1944, ma l'impegno e la volontà dimostrata convincono gli alleati, i quali decidono di aumentare la possibilità d'impiego dei reparti italiani e di assegnare nuovi equipaggiamenti, consentendo la nascita di 6 divisioni denominate Gruppi di Combattimento.

Enrico Toti (Roma, 20 agosto 1882 – Monfalcone, 6 agosto 1916) è stato un prodigioso inventore, un ciclista e un eroe italiano della prima guerra mondiale. Nell'agosto 1916 cominciò la sesta battaglia dell'Isonzo che si concluse con la presa di Gorizia. Il 27 marzo 1908, mentre lavorava alla lubrificazione di una locomotiva, che si era fermata nella stazione di Colleferro per effettuare l'aggancio a una doppia locomotiva e per fare rifornimento d'acqua, a causa dello spostamento delle locomotive, Toti scivolò rimanendo con la gamba sinistra incastrata e stritolata dagli ingranaggi. Subito portato in ospedale, l'arto gli fuamputato al livello del bacino Il 6 agosto 1916, Enrico Toti, lanciatosi con il suo reparto all'attacco di Quota 85 a est di Monfalcone, fu ferito più volte dai colpi avversari, e con un gesto eroico, scagliò la gruccia verso il nemico esclamando "Nun moro io!" (io non muoio!)[1], poco prima di essere colpito a morte e di baciare il piumetto dell'elmetto.

giovedì 23 aprile 2015

Incontro Istituzionale con i parenti del Generale di C.A. Ettore Fucci

COMUNICATO STAMPA




Barletta 22 aprile 2015

IL SINDACO CASCELLA INCONTRA IL FIGLIO DEL COLONNELLO FUCCI,
BARLETTANO AL COMANDO DEL CORPO ITALIANO DI LIBERAZIONE
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Mercoledì 22 aprile 2015 – Nel segno del valore della memoria e dell’impegno da tramandare alle nuove generazioni si è svolto questa mattina a palazzo di Città un incontro tra il sindaco Pasquale Cascella e Antonio Fucci, figlio di Ettore, colonnello barlettano al comando del Corpo Italiano di Liberazione, con la partecipazione di altri familiari e alla presenza del presidente della locale sezione dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, Ruggiero Graziano.

Nel ringraziare il signor Fucci per la preziosa testimonianza offerta l’altro giorno con la partecipazione all’inaugurazione della mostra allestita nei locali della Prefettura dalla locale sezione di Storia Patria in collaborazione con la Soprintendenza Archivistica per la Regione Puglia e Basilicata, l’Archivio di Stato, e l’A.N.M.I.G., il sindaco ha invitato i familiari del militare pluridecorato a contribuire alle iniziative promosse dal Comune per la fine di maggio in occasione degli eventi per la commemorazione del centenario della Prima Guerra mondiale, rinsaldando così i legami con Barletta affinché “l’importante vissuto personale possa confluire nell’inestimabile patrimonio storico-culturale della città”.

Cerimonia Madonna della Sfida a S.Antonio in Texas


Nel ricordo del concittadino Giuseppe Carli prima M.O.V.M. della Grande Guerra




Si è tenuta domenica 19 aprile 2015 la cerimonia che annualmente si svolge in Texas a S.Antonio U.S.A. la cerimonia Madonna della Sfida, volta a ricordare le Vittime del Dovere Istituzionale grazie al Com.It.Es e il C.T.I.M. presidiato dal responsabile del Nord America Vincenzo Arcobelli.
In occasione del Centenario della Grande Guerra, quest'anno è stata onorata la figura del barlettano Giuseppe Carli, deceduto il 1 giugno 1915.
Al seguito la motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare:

In un critico combattimento - si legge infatti nella motivazione della medaglia d’oro a Carli  - in cui era di estrema necessità l’occupare una posizione per proteggere il riordinamento di altre truppe e dar loro il tempo di riaversi da una sorpresa, con straordinario slancio, trascinando con l’esempio tutta la propria squadra, raggiunse, primo del suo plotone, l’appostamento indicato, furiosamente battuto dal tiro di mitragliatrici nemiche. Ferito gravemente per due volte, non cessò dall’incitare con la voce e con gli atti, bersaglieri e graduati. Colpito ancora due volte, si trascinò, con stoicismo e coraggio impareggiabili, fino a pochi metri dal ciglio dell’appostamento, e quivi, fulgido esempio di tenacia, gridò le sue ultime parole ai dipendenti che avrebbero voluto soccorrerlo: ‘Andate a sparare’ E gloriosamente spirò”.
Da sinistra il ConsFerruzzi con i rappresentanti della polizia e dei vigili del fuoco di sanAntonio ( Texas )
In occasione del sesto anniversario della Madonna della Sfida, il Consigliere del Comites della Circoscrizione Consolare di Houston Roberto Ferruzzi ha ricordato a tutti presenti nella chiesa di San Francesco di Paola, San Antonio, Texas, il significato non solo della Santa Messa,ma della Icona della Madonna come protettrice di coloro che ci difendono dai nemici della societa'.
Il Consigliere ha poi evidenziato anche l'atto di Gemellaggio` fra la Chiesa di San Luca Evangelista in Venezia con la Chiesa di San Francesco di Paola in San Antonio.
D' accordo con le regole del Gemellaggio, le chiese gemelle onorano quelle famiglie che hanno perduto i loro figli nell'ademprimento del loro dovere Istituzionale.
In questo sesto anniversario quattro famiglie hanno ricevuto questo onore. L evento e` stato caretterizzato quest anno dal riconoscimento per un giovane italiano di Barletta che perse la vita in guerra, alla eta di solo 19 anni. il suo nome, Giuseppe Carli, Medaglia d oro al valor militare , sono stati letti i messaggi arrivati per l occasione ,dal Pres del Comites e Coordinatore del CTIM in Nord America Com.te Vincenzo Arcobelli, dal Sindaco della Citta` di Barletta, On. Pasquale Cascella.,dal Prefetto della provincia di Barletta e dal Generale di Brigata Carli e dal Segretario Generale del CTIM on.Menia.
Le tre famiglie i cui figli sono caduti in difesa della comunita' di San Antonio, TX. I loro nomi seguono: Police Officers Peter J. Scrivano, Michael Cory McInnis and Richard Cuellar.
Dopo la cerimonia della S.Messa, si e` fatto un piccolo ricevimento nel salone Italiano attiguo alla chiesa. Il ConsigliereFerruzzi ha ringraziato tutti i presenti specialmente il Presidente dei Francescani, John Pantusa per la collaborazione, il cons.Sam Greco.
Nella Foto da sinistra
Cons. Roberto Ferruzzi, Father Gregory
Officer Joe Salvaggio
Officer Ralph Sifuentes

mercoledì 22 aprile 2015

In ricordo della Grande Guerra, una mostra per non dimenticare

http://www.barlettaviva.it/notizie/in-ricordo-della-grande-guerra-una-mostra-per-non-dimenticare/



Iniziativa promossa dalla provincia Bat, spazio aperto allo scuole

REDAZIONE BARLETTAVIVA
Nel quadro delle iniziative volte a commemorare, anche nel territorio di questa provincia, il Centenario della Grande Guerra, questo pomeriggio il Prefetto di Barletta Andria Trani Clara Minerva, alla presenza delle massime Autorità civili e militari, di una rappresentanza delle scuole e di un folto numero di cittadini, ha inaugurato nel palazzo di Governo, la mostra di fonti documentarie bibliografiche e cimeli dal titolo "La provincia di Barletta Andria Trani in ricordo della Grande Guerra".

Nel suo intervento inaugurale, il Prefetto ha evidenziato che l'obiettivo dell'iniziativa è quello di contribuire ad alimentare la memoria per trarre attraverso la Storia gli insegnamenti per il futuro e passare il testimone alle nuove generazioni, consegnando ad esse i valori democratici dolorosamente costruiti con il sacrificio di tanti. In questa ottica, pertanto, ha comunicato che le porte della Prefettura saranno aperte alle scuole di ogni ordine e grado per effettuare visite guidate. La Mostra, organizzata dalla deputazione di Storia Patria "S. Santeramo" sezione di Barletta, con la collaborazione del Comune di Barletta, della Soprintendenza Archivistica per la Regione Puglia e Basilicata, dell'Archivio di Stato, dell'A.N.M.I.G. e di alcuni studiosi, ha suscitato grande interesse per il prezioso materiale storico esposto.

L'esposizione rimarrà aperta al pubblico fino al prossimo 18 Maggio e osserverà i seguenti orari: dal lunedì al sabato dalle 10,00 alle 12,00 e dalle 16,00 alle 18,00, con apertura solo di mattina nei giorni 25 Aprile e 1° Maggio. Le visite guidate, potranno essere programmate inviando una comunicazione agli indirizzi di posta elettronica assunta.russo@interno.it oppure rosario.penza@interno.it

martedì 21 aprile 2015

L’Italia cento anni fa nella Prima Guerra Mondiale

http://www.barlettaviva.it/notizie/l-italia-cento-anni-fa-nella-prima-guerra-mondiale/





Serata Lions tra memoria e analisi storica

di PAOLO DORONZO
"Una guerra non si celebra, si commemora" così il sindaco Pasquale Cascella, intervenendo all'incontro, promosso dal Lions Club International Distretto 108 Ab – Puglia, intitolato "La Prima Guerra Mondiale e l'Europa di oggi", in collaborazione con il Movimento Monarchico italiano, svoltosi nella serata di sabato presso il Brigantino2. L'evento è stato voluto in occasione del centenario dall'ingresso dell'Italia nella Prima Guerra Mondiale, la Grande Guerra, al fianco dell'Intesa (Gran Bretagna, Francia e impero russo) contro gli imperi centrali, cioè impero Austro-Ungarico, Germania e impero Ottomano, a cui pure era legata nella "Triplice Alleanza", «un patto puramente difensivo» come ha ricordato il prof. Domenico Fisichella, già senatore per oltre un decennio, già Ministro dei Beni Culturali per il I Governo Berlusconi e autore di diversi testi di contenuto storico, alcuni riguardanti proprio il conflitto bellico del '15-'18.

Il conflitto ebbe inizio il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell'Impero austro-ungarico al Regno di Serbia in seguito all'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo a Sarajevo, e si concluse oltre quattro anni dopo, l'11 novembre 1918. Oltre 9 milioni di vittime nel teatro di guerra europeo, nel contesto novecentesco inaugurando le cosiddette "guerre di massa" che si perfezioneranno circa un ventennio dopo, con la Seconda Guerra Mondiale, che prenderà corpo proprio da questa. Barletta ha le cicatrici, fondamentale contributo alla memoria storica, anche della Prima Guerra in due tristi primati: 24 maggio 1915, primo giorno di guerra, l'incrociatore austriaco "Helgoland" apre il fuoco verso la nostra città, colpendo prima alcuni vagoni ferroviari del porto, poi mira verso una palazzina in via Mura S. Cataldo, e lascia sette segni di cannonate sulle mura del Castello, ancora oggi ben visibili; l'altro primato è la prima medaglia d'oro al valore per il giovane milite barlettano, Giuseppe Carli. Il giornalista Rai, Costantino Foschini, moderatore della serata, ha ricordato anche il primo campo di prigionia in Puglia, quello di Altamura, dove persero la vita diversi soldati austriaci.

Fisichella si è soffermato sulla disputa interna fra interventisti, fra cui i repubblicani e i democratici, e i neutralisti, fra cui i socialisti, ma non in modo compatto (tra loro ricordiamo un Mussolini prima per la non partecipazione al conflitto, cambiando poi idea), e gli irredentisti, vedendola come il completamento delle Guerre d'Indipendenza. «La Guerra non ha ristabilito l'ordine internazionale, come desiderato – ha ricordato Fisichella – anzi l'ha distrutto». Il prof. Ugo Villani, docente universitario di diritto internazionale, ha ricordato che "l'inutile strage", come la definì Papa Benedetto XV, non cambiò nulla nella politica internazionale del momento, suscitando di fatto la II guerra mondiale, ma pose le basi per la costruzione di quella Società delle Nazioni, antesignana dell'ONU, che solo dopo il '45 renderà praticabile quella via di pace realizzata per 70 anni in Europa; un'Europa che si renderà "potenza normatrice", esportatrice di modelli valoriali.

È intervenuto anche il prof. Giulio de Renoche; i saluti istituzionali sono venuti anche dal Presidente della Provincia di Barletta-Andria-Trani, Francesco Spina, dal viceprefetto Liguori, introdotti dal Presidente dei Lions, Domenico Diella, accolti dal dott. Antonio Luzzi. La serata è stata arricchita dagli interventi musicali di canti storici legati al conflitto mondiale, eseguiti dal coro "Polifonico Giuliani" diretto dal maestro Pino Cava, e da una mostra documentaria con cimeli organizzata da ANMIG di Barletta.

sabato 18 aprile 2015

La Madonna della Sfida e Giuseppe Carli, simboli di Barletta negli Stati Uniti


Il Comitato Tricolore Italiani nel Mondo ricorderà il soldato barlettano

La Puglia (Barletta), gli Stati Uniti (San Antonio-Texas), il Veneto (Venezia): terre distanti tra loro, che saranno unite, domenica 19 aprile, quando sarà celebrata - presso la Chiesa di San Francesco di Paola a San Antonio, nello Stato americano del Texas - la cerimonia religiosa in ricordo dei caduti nell'adempimento del proprio dovere istituzionale. La cerimonia, intitolata "progetto memoria" e organizzata dal CTIM (Comitato Tricolore per gli italiani nel mondo - coordinamento Nord America) e dalComites di Houston. La cerimonia, fortemente voluta da Vincenzo Arcobelli, e dal "barlettano"Filomeno Porcelluzzi, ha come simbolo la "Madonna della Sfida". La cerimonia verrà inaugurata proprio con l'esposizione permanente dell'opera, copia dell'icona ricevuta direttamente da Venezia, dono del "Comitato Cerimonia Madonna della Sfida" e dall'Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria. La splendida "Madonna della Sfida", icona venerata nella Cattedrale di Barletta, è stata dedicata a tutti i caduti nell'adempimento del proprio dovere istituzionale.

L'immagine della Madonna fu - a seguito della storica Disfida di Barletta (città legata alla Repubblica Serenissima di Venezia per motivi marinari) - portata in processione quale ringraziamento per il coraggio e valore mostrato dai cavalieri italiani nel difendere l'onore Italiano, nella gloriosa battaglia che rappresentò il primo anelito di libertà della nostra patria.
La Messa sarà celebrata dal Vescovo Michael Tfifer, con la presenza delle autorità locali, dei rappresentanti delle Forze dell'Ordine, della comunità. Lo stesso vescovo, aveva già dichiarato - già dal 2009 - che la Madonna della Sfida di Barletta veniva presa in custodia dalla Chiesa San Francesco di Paola, per venerazione di tutta la comunità di San Antonio.



Durante la cerimonia, il rappresentante del Ctim, nella veste del comandante Vincenzo Arcobelli, e i Consiglieri del COMITES, Sam Greco e Roberto Ferruzzi, ricorderanno la figura del giovane bersagliere barlettano, Giuseppe Carli, prima medaglia d'oro al valor militare della guerra 1915-1918. In occasione della ricorrenza del centenario della Grande Guerra, messaggi di saluto, alle autorità Statunitensi che parteciperanno alla cerimonia, sono stati inviati dal Sindaco di Barletta, Dott. Pasquale Cascella, e dal Prefetto, Dott.ssa Clara Minerva, e dal pronipote dell'eroe barlettano, il Generale di Brigata, Gaetano Carli.

Con la prima cerimonia religiosa che si è tenuta il 16 giugno 2007, presso la chiesa S.Luca di Venezia, è iniziato un rito annuale per far conoscere alle nuove generazioni il sacrificio delle "Vittime del Dovere", e da quest'anno, parteciperà anche L'Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, di Barletta, quale giusta rappresentante della città della Sfida.

venerdì 17 aprile 2015

Lettera dall’inferno russo

https://scaccia.wordpress.com/2012/12/20/lettera-dallinferno-russo/



Korinternovsky, 17 febbraio 1992.
Sono un russo che abita nella regione di Voronetz, dove voi italiani state cercando i resti dei soldati morti durante la guerra tra Unione Sovietica e la Germania, settanta anni fa. Vorrei aiutarvi perchè sono stato testimone di ciò che è successo durante la vostra ritirata e conosco tante fosse dove i prigionieri italiani sono stati sepolti. Ce ne sono centinaia: quante siano esattamente nessuno lo sa e non lo saprà mai perchè il tempo le ha cancellate.
Quando è cominciata la guerra avevo dieci anni. Al momento degli avvenimenti che descrivo ne avevo dodici tredici e ricordo bene tutto. Vi parlo della distruzione di un centinaio, forse di centinaia di prigionieri italiani da parte di una scorta sovietica che li accompagnava. Tutti i vostri compatrioti sono stati annientati, fino all’ultimo, e gettati in un burrone. Ricordo e conosco perfettamente questa voragine: si trova nella federazione russa, regione di Voronetz, provincia di Vorobiovka, stazione Lescianaia, uliza Podlesnaia. Alla fine della via Podlesnaia attualmente vivono quattro famiglie: Jridnec, Nasalova, Volkov e Jolovanov. A cento metri da questa casa, subito oltre gli orti, si trova quel dirupo. A quel tempo 1’abitato non si chiamava stazione Lescianaia, ma stazione Vorobiovka e c’erano venti o trenta case dove viveva molta gente. A quel tempo non esisteva neppure via Podlesnaia. I1 fosso era in un terreno abbandonato. La zona abitata vicino alla stazione Vorobiovka è cresciuta più tardi. Il burrone allora era coperto da pochi cespugli: ora non si può riconoscere perchè è nascosto da un bosco piuttosto esteso. Io sono uno dei pochi testimoni di quella tragedia. A quei tempi, noi ragazzi vivevamo in miseria, eravamo seminudi e avevamo sempre fame. L’indigenza ci costringeva ad uscire nei giorni freddi d’inverno sulle strade dove le scorte russe continuavano a seguire colonne e colonne di prigionieri italiani. Da noi non passavano né tedeschi né ungheresi, ma sempre italiani: li riconoscevamo subito per i cappotti verdi. Gli italiani avevano pin fame di noi: davano tutto quel the potevano per un pezzo di pane, per una patata o una mezza bietola. Cedevano fazzoletti da naso, 1’ultima coperta, cravatte, uniformi e cappotti; insomma, tutto e andavano avanti semisvestiti anche se l’inverno era molto freddo. Vedevamo gli italiani che gelavano durante la marcia. I soldati di scorta facevano uscire dalla colonna quelli che non potevano pin andare avanti da soli, li portavano a cinque-sei metri dalla strada e li fucilavano. Una slitta trainata da un cavallo che doveva servire per trasportare i prigionieri indeboliti accompagnava quasi sempre le colonne da un villaggio all’altro. Ma su queste slitte stavano sempre a turno i soldati di scorta. Cosi le file dei prigionieri andavano avanti lasciando per strada gli italiani fucilati. Sui fucilati, giovani a volte ancora vivi o appena feriti, si gettava subito una banda di noi, adolescenti e ragazzi dei villaggi. E due minuti dopo, il cadavere ancora caldo diventava nudo. Spesso si veniva alle mani accanto ai cadaveri, ognuno cercava di togliere per primo al morto tutto quel che capitava. C’era fretta perchè con quel freddo il cadavere gelava molto presto. Era impossibile togliere intatti stivali e vestiti a un cadavere gelato. In tali casi la popolazione locale, non più noi ragazzi ma gli adulti, ricorreva all’ascia. Di notte, quando nessuno li vedeva, gli uomini del villaggio andavano nei posti dove stavano i morti gelati. Per non distruggere il cappotto, la giubba e la camicia tagliavano le braccia al prigioniero. Poi tutto veniva sfilato inta italiano congelato senza danneggiare le calzature. E di nuovo ricorrevano all’ascia. Tagliavano i piedi insieme alle calzature e li portavano a casa. Lì, al caldo, scongelavano i piedi, in tal modo le scarpe si toglievano bene. Poi gli uomini uscivano e andavano a sotterrare i resti lontano da casa. Tutta la strada dalla città di Kalag, alla stazione Voriobvka, era piena di cadaveri dei prigionieri di guerra italiani. In alcuni posti per un tratto di cento metri si potevano contare anche nove corpi. I resti erano veramente molti, nessuno contava e se ne fregavano tutti; c’erano abituati. Ma poi è arrivata la primavera con il caldo, le salme hanno cominciato a decomporsi. E volente o nolente la gente ha cominciato a seppellirle vicino alla strada. Scavavano una fossa non profonda, vi gettavano il soldato e lo sotterravano alla meno peggio. Dopo la fine della guerra hanno cominciato ad arare la terra vicino alle strade per seminare. Durante l’aratura tiravano fuori dalla terra i resti degli italiani. Per molti anni, teschi e ossa sono rimasti allo scoperto nei campi vicini alle strade e in fossati. Dietro agli orti e nei prati, lontano dalla strada dove passavano i prigionieri, giacevano le estremità inferiori. Tra la città di Kalag e la stazione di Voriobvka c’erano due abitati: il villaggio Novo-Tulugheevo e il villaggio Rudnia. In ogni villaggio c’era una chiesa. Tutte le chiese però erano semidistrutte e abbandonate, non c’erano vetri né riscaldamento. Di notte le scorte sistemavano i prigionieri italiani in questi templi. Alla mattina molti erano congelati e altri lo erano per meta, ma per quanto ancora vivi non potevano alzarsi in piedi. I soldati di scorta accompagnavano fuori dalla chiesa chi poteva camminare e fucilavano quei prigionieri che non erano congelati del tutto, ma che non potevano muoversi da soli. Nessuno cercava di distinguere chi era congelato del tutto e chi no e quindi fucilavano spesso anche i vivi. C’era allora i problema di seppellire tutti quei morti. Proprio nel Centro del villaggio, vicino alla chiesa, si scavava una grande fossa comune. Su slitte si portavano dalla chiesa i cadaveri degli italiani e si gettavano dentro. In mezzo a tanti caduti, come ho detto, c’erano anche italiani ancora vivi che cercavano di strisciare fuori dalla sepoltura comune, ma i soldati sovietici li finivano a calci, con le pale o semplicemente con palle di terra, li gettavano indietro nella fossa e poi sotterravano tutti insieme, i morti e i vivi. La sepoltura dei prigionieri era sempre accompagnata dal saccheggio. Nel villaggio Rudnia c’era un uomo, Lunin Kfarifon che non era andato alle armi perchè malato mentale. Quando questi notava in bocca di un italiano, morto o vivo, un dente o una capsula d’oro, prendeva una pala o una pietra, spaccava la mascella ed estraeva l’oro. E successo veramente di tutto in quei giorni, ma non c’era un censimento dei prigionieri italiani. La scorta spesso si dimenticava qualche congelato in fondo alla colonna, magari pensando che fosse morto. Ci sono stati molti casi di italiani rimasti indietro che si sono rifugiati nel villaggio, andando per le case, a riscaldarsi e chiedere cibo. Poi la scorta della successiva colonna li prendeva e li portava avanti. Da noi c’è stata una storia con un italiano. Un prigioniero rimasto indietro rispetto ai suoi compagni. Le scorte non se lo sono preso. Lui e rimasto al villaggio. Ha girato un giorno intero e poi ancora per un altro giorno. Alcuni hanno avuto anche il coraggio di lasciarlo entrare per pernottare. Era un bel giovane e soprattutto era in grado di arrangiarsi. Sapeva riparare una serratura, rappezzare un secchio, spaccare legna e cucire gli stivali. Sapeva fare tutto. L’ospitò alla fine una vecchietta ed egli cominciò a vivere da lei, come un inquilino. La gente nel villaggio parlava spesso di questo “inquilino dell’Italia”. Gli abitanti cominciarono ad andare da lui con ordinazioni ed egli faceva tutto a tutti e riusciva a terminare tutte le commissioni. Cominciava a piacere agli uomini del villaggio. Per il lavoro gli portavano quel che potevano, un pezzo di pane, patate, latte e altro cibo. L’italiano era diventato uno dei nostri simili, nel villaggio. Arrivò la primavera. Nel kolkos nessuno sapeva riparare ruote e carri. Il presidente del kolkos allora chiese l’aiuto dell’italiano. Anche in questo caso se la cavò bene, riparando tutto. Lavorava nel kolkos insieme a tutti gli uomini non chiamati alle armi per ragioni di salute; era stato addirittura nominato capo-brigata di falegnameria. Se qualcosa andava male negli affari del kolkos, il presidente diceva: “Va dall’italiano, lui sbroglierà la faccenda”. E l’italiano risolveva tutto. Per esempio, nel mulino-oleificio per molto tempo non riuscivano ad avviare il diesel; il giovane mise a posto anche quello. Ma la dirigenza come poteva giustificare la permanenza illegittima di un prigioniero di guerra italiano nel villaggio? Semplice. Egli era amico del presidente del kolkos, perchè lavorava bene. Inoltre, aveva cucito nuovi stivali al presidente del Soviet Rurale su sua richiesta. Non c’era nessun danno da parte del soldato, la gente si era abituata a lui e poteva vivere nel villaggio tranquillamente. Cosi passarono circa due anni. Alla fine della guerra, quando le truppe hitleriane erano gia state cacciate dal territorio dell’URSS, le autorità locali si ricordarono improvvisamente che nel loro villaggio viveva illegalmente, senza registrazione all’anagrafe, un prigioniero. A ricordarlo era stato un telegramma del reparto provinciale del NKVD, progenitore del KGB, che chiedeva notizie su quel prigioniero di guerra italiano vissuto per due anni nel villaggio. Non fu facile per le autorità locali spiegarne le ragioni. Il presidente del Soviet Rurale e quello del kolkos cominciarono a scaricare la colpa l’uno sull’altro. Dopo molte discussioni non riuscirono a mettersi d’accordo e allora decisero di chiamare l’italiano al Soviet Rurale e l’uccisero con un fucile da caccia. La gente del villaggio ha sempre saputo chi ha premuto il grilletto: un certo personaggio che tutti chiamavano con il soprannome di «Gallo». La storia di quest’italiano, che ricordo benissimo, mi ha distratto dal tema principale. Ritrovare il burrone di quel massacro. Chiarisco che su questa fossa non ci sono croci o pietre sepolcrali, né altro che possa farlo riconoscere. Solo io e pochi altri sappiamo del posto. Migliaia di corvi hanno volato sopra il burrone per tutta la primavera e tutta restate, fino all’autunno: perchè quel mucchio di corpi umani si è trasformato presto in un mucchio di teschi, scheletri e ossa. Nessuno ha mai sotterrato i resti. Le acque di primavera li hanno dispersi nel dirupo per molti chilometri o li hanno portati via i cani. Forse alcune povere spoglie calcate dal tempo in fondo al ruscello, si trovano ancora là. La sorte ha voluto che per cinque anni, dal 1957 al 1961, vivessi a cento metri dal burrone. Andando nel bosco per tagliare legna trovai molto spesso ossa umane, anche se tutti noi cercavamo di aggirare il posto. Quando vivevo vicino al burrone alcuni vecchi affermavano di sentire la notte gemiti e pianti. Altri sostenevano di vedere nel burrone luci simili a candele accese. Altri ancora raccontavano di ritrovarsi di notte scheletri umani vicino alle loro case. Un uomo di nome Miroshnicenko, che abitava proprio vicino al burrone, riuscì faticosamente a vendere la casa e a trasferirsi in un altro posto. Conoscevo personalmente quest’uomo. Gli ho chiesto perchè vendeva una bella casa e un buon terreno. Per molto tempo non mi ha risposto; poi una volta, davanti a una vodka, mi ha svelato il segreto. Miroshnicenko mi ha raccontato che non poteva vivere vicino al burrone perchè quasi ogni notte, specie d’estate, lui e la sua famiglia sentivano lamenti e pianti. E se andavano alla finestra vedevano scheletri andare di qua e di là. Mi ha pregato di non raccontarlo a nessuno: temeva di non riuscire a vendere la casa. Personalmente non ho sentito né visto certe cose nei cinque anni che ho vissuto vicino al burrone. Ma io stesso ho dovuto molte volte sotterrare i resti di prigionieri italiani. Avevo un grosso cane che liberavo ogni notte e che portava nella sua cuccia tutto quel che trovava. Quasi ogni mattina, vicino alla cuccia, trovavo un teschio umano o altre ossa. Prendevo queste spoglie, le portavo nel bosco e le sotterravo. La mattina dopo tutto si ripeteva. E cosi per molte mattine, finché ho capito che la situazione poteva durare in eterno. Allora ho venduto il cane. E non ne ho presi altri perchè tutti i cani della zona andavano naturalmente in cerca di ossa the giacevano dappertutto nel villaggio: dietro gli orti, vicino alle strade, nei fossati. Nel 1987, d’estate, sono tornato in ferie vicino al burrone, perchè la vive ancora mia sorella. Andando a fare una passeggiata nel Bosco, dopo tanti anni, sul fondo del ruscello ho visto ancora un teschio. Ma non vi ho raccontato com’è avvenuto il massacro. Era l’inverno del 1942 o del ’43, non ricordo bene; era sicuramente quasi buio. I soldati di scorta hanno portato vicino al burrone un’intera colonna di prigionieri italiani, centinaia. Poi li hanno cacciati dentro, sul fondo del burrone, stretti l’uno all’altro. Terminato questo lavoro, i soldati sovietici sono usciti dal dirupo e hanno cominciato a lanciare granate contro i prigionieri. C’erano molti soldati di scorta e tutti lanciavano granate, per un tempo abbastanza lungo. Negli intervalli tra le esplosioni delle granate si sentivano le grida dei condannati. Terminato il massacro i soldati di scorta sono scesi di nuovo sul fondo. Si sono sentiti spari, molti spari. Sebbene fossimo ragazzi noi capivamo bene cosa succedeva li dentro: i sovietici stavano finendo i vivi con colpi di fucile e di baionetta. Poi i soldati di scorta sono saliti sui carri trainati da cavalli e sono partiti. Prima di cominciare il massacro, ci avevano cacciato via ma non mot-to lontano. Perciò noi abbiamo visto e sentito tutto. Anche stavolta i soldati italiani non erano tutti morti. Sentivamo sospiri e gemiti. Sul fondo del burrone giaceva una montagna insanguinata di corpi. Anche la neve, per alcuni metri intorno, era inondata di sangue. I cadaveri giacevano con le viscere di fuori, senza testa e senza estremità. Teste, braccia, piedi e altre parti erano sparsi per molti metri intorno. E scesa la notte e il freddo ha finito quello che avevano lasciato in sospeso i soldati. Cosi sono scomparsi centinaia di italiani. Quella notte è nevicato e al mattino tutto era sepolto sotto uno strato spesso di neve. Non è un segreto per nessuno che nel burrone, ora nascosto da un bosco, ancora marciscano i resti di poveri prigionieri mai sepolti. Non è neanche un segreto che le ossa siano proprio italiane. Lo può confermare qualsiasi abitante della via Podlesnaia. Molti testimoni sono morti, come i miei amici Ivan Mikhailovic e Vasilj Popov che stavano accanto a me quella sera. Ma molti altri invece ancora vivono e ricordano. Ho gia fatto i nomi e sono pronti a raccontare. Vi ho descritto tutto quello che ho visto con i miei occhi e sentito con le mie orecchie. Ciò che non riuscirò mai a spiegarvi è quel che ho sentito, e che sento, dentro di me.
E.I. Korneev Csi federazione russa
394049 Voronetz, rione Korinternovsky
Khnicesky 2 kv, 145

lunedì 13 aprile 2015

Prima Guerra Mondiale, le vite dei giovani soldati barlettani

La trincea di Michele Mennea


 di TOMMASO FRANCAVILLA
Cento anni fa il mondo era diverso, ma le angosce dei soldati erano le stesse di oggi. Nel centenario della Prima Guerra Mondiale, ricordiamo le brevi vite di alcuni dei 569 cittadini barlettani caduti durante un disperato attacco alla baionetta, deceduti in seguito a gravi ferite o per malattia, nel nord Italia.

Michele Mennea nasce a Barletta il 9 febbraio 1896. Dal 1908 al 1914 frequenta il liceo ginnasio "A. Bonello" di Barletta. Allo scoppio della guerra, Michele si arruola come sottotenente del 17° Reggimento Bersaglieri. Il 10 dicembre 1917, nell'Ansa di Ca' Lunga (Piave), al comando di un plotone, durante un attacco contro trincee avversarie e nidi di mitragliatrici, porta all'attacco i suoi commilitoni. Conquista le prime posizioni, fino a quando riceve ordini di continuare l'assalto insensato, senza aspettare rinforzi. A questo secondo attacco, Michele viene colpito a morte. La sua salma viene trasportata a Barletta. Michele Mennea aveva 21 anni e fu decorato con la Medaglia d'Argento al Valor Militare.



Raffaele Bicci nasce a Barletta il 5 settembre 1892. Studente presso il liceo "A. Bonello" di Barletta, si diploma nel 1909. Frequenta l'Accademia militare di Modena. Promosso tenente e assegnato al 20° Fanteria, viene inviato a Bengasi (Libia), al comando di un plotone di ascari somali, durante la guerra libica (1911 -1912).
Promosso capitano nel 1916, in seguito a sue insistenti domande, fu inviato sul fronte italo – austriaco e aggregato al 212° fanteria della "Brigata Pescara", costituita il 16 maggio 1916. Il 6 agosto ha inizio la battaglia per riconquistare Gorizia, in mano agli austriaci. Raffaele e i suoi commilitoni, partecipano con slancio alla riconquista di Gorizia, il cui esito positivo fu la cattura di 700 avversari ,con tutto il materiale bellico.
Ma non è finita, bisogna conquistare il monte S. Caterina. Il 10 agosto, all'alba, l'attacco ha inizio, ma il 212° fanteria di Raffaele Bucci è bloccato dalla resistenza austriaca, composta da nidi di mitragliatrici e artiglieria. Le nostre bombarde spazzano le postazioni avversarie, Raffaele e si suoi commilitoni riescono a superare le asperità del terreno, a varcare la prima linea avversaria e i reticolati, travolgendo gli avversari austriaci e catturando un centinaio di prigionieri. Raffaele, durante l'assalto, viene ferito gravemente al braccio e all'addome. Trasportato presso l'ospedale militare di Gorizia, Raffaele muore dopo due giorni di agonia, il 13 agosto, all'età di 24 anni. La salma di Raffaele Bicci riposa nel cimitero di Barletta. La presa di S. Caterina ebbe esito negativo per l'esercito italiano, in un solo giorno di combattimenti, il 212°fanteria perse 23 ufficiali e 724 soldati.

Raffaele Rutigliano nasce a Barletta il 7 gennaio 1890. Era un contadino e fu arruolato nel 231° reggimento fanteria, Brigata "Avellino", impegnato nella VI battaglia dell'Isonzo, sul monte Grafenberg (Gorizia). Nella notte tra il 7 e l'8 agosto 1916, il 231°fanteria travolge la resistenza austriaca e passa l'Isonzo la notte seguente, entrando in Gorizia con i primi reparti italiani. L'8 agosto, presso Grafenberg, durante un assalto ad una postazione nemica, Raffaele è colpito a morte. Raffaele Bicci aveva 26 anni e fu decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare . Intanto, la sua brigata fu avviata contro le nuove linee austriache al di là di Gorizia e si dissanguò in vani attacchi sul monte San Marco tra il 10 e il 16 agosto. In pochi mesi la brigata "Avellino" perse 56 ufficiali e 2.926 uomini, su circa 6.000 effettivi.

Giuseppe Zigolillo nasce a Barletta il 27 febbraio 1894. Era un muratore muratore e fu arruolato nel 2° Reggimento Fanteria. Il 29 gennaio 1917, presso Castagnevizza del Carso (Slovenia), nel corso della decima battaglia dell'Isonzo, sotto fitto bombardamento avversario, Giuseppe, incurante del pericolo, tenta di recuperare alcune casse di bombe a mano, quando viene colpito a morte da una granata. Giuseppe aveva 23 anni e fu decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare.

La trincea di Michele Mennea
Si ringrazia per la collaborazione Ruggiero Graziano, presidente dell'ANMIG (Associazione Nazionale Mutilati Invalidi di Guerra) - sezione Barletta (via Capua, 28). La redazione di BarlettaViva invita i discendenti dei suddetti soldati barlettani, a contattare la redazione per approfondire la conoscenza del loro illustre parente, inviando una mail al nostro indirizzo di riferimento, oppure al numero 320 4160422.

martedì 7 aprile 2015

Angelo Torre e Nicola Galasso, giovani barlettani nella prima Guerra Mondiale

Cognac e alcool per affrontare la morte in battaglia


di Tommaso Francavilla


Furono 569 i cittadini barlettani, caduti nelle trincee della prima guerra mondiale. A cento anni dallo scoppio del conflitto, ricorderemo alcuni di loro e le loro brevi vite.

Angelo Torre nasce a Barletta il 27 settembre 1894. Si diploma nel 1914 presso il liceo classico "A. Bonello". Allo scoppio della guerra, Angelo è arruolato nel 3 genio telegrafisti ed assegnato ad un osservatorio di dirigibili sul Carso. Qui, nel 1916, si ammalò e morì. Angelo Torre aveva 22 anni.



Nicola Galasso nasce a Barletta il 6 febbraio 1887. Aspirante Ufficiale del 31° Fanteria "Brigata Bologna". Il 23 maggio 1917, Nicola partecipa con la sua brigata, alla Decima Battaglia dell'Isonzo. La brigata "Bologna" attacca il saliente di Hudi Log, nei pressi di Castagnevizza sul Carso (Slovenia), assieme ad altre 16 divisioni di fanteria. Prima dell'assalto, si distribuiscono alla truppa delle razioni supplementari di vermouth e cognac, per mettere i soldati in stato di incoscienza al momento dell'urto con il nemico. Dalle ore 6 del mattino, alle ore 16 del 23 maggio, tutte le artiglierie della III Armata bombardano le posizioni nemiche, già sconvolte dai precedenti bombardamenti, quindi la fanteria esce all'attacco lanciandosi dalle trincee.

All'ala sinistra l'azione, sebbene dimostrativa, è condotta con energia, impegnando il nemico; al centro e alla destra, l'attacco è condotto a fondo, con estremo vigore. Gli avversari austro -ungarici, sorpresi e sgominati dall'improvviso attacco, reagiscono verso sera con un violento contrattacco, sostenuto da bombardamenti di eccezionale intensità; il contrattacco fu respinto con gravi perdite da parte delle truppe italiane. Durante questo attacco, Nicola Galasso,, alla testa del suo plotone, viene colpito a morte mentre si lancia, incitando i suoi soldati, contro postazioni avversarie. Intanto, le squadriglie aeree italiane - 140 velivoli - partecipano alla battaglia, rovesciando sulle linee avversarie 10 tonnellate di bombe, mitragliando le truppe ammassate. Alla potente preparazione delle artiglierie contribuirono con efficacia dieci batterie inglesi del più recente modello, giunte al nostro fronte a confermare la cooperazione dell'esercito alleato.

Nella zona di Gorizia, respinti i forti attacchi nemici, le nostre truppe presero d'assalto e conquistarono un fortino sulle pendici nord-ovest di San Marco e, dopo accaniti combattimenti, ottennero altri progressi nella zona di Monte Santo e del Vodice. Quel giorno di maggio, si chiudeva con una vittoria sanguinosa per l'esercito italiano. Nel corso della giornata, furono catturati al nemico oltre 9000 prigionieri austro - ungarici, di cui 300 ufficiali.
Qual giorno, morirono 1175 soldati italiani, di cui 64 ufficiali. Nicola Galasso aveva 30 anni e fu decorato con la Medaglia d'Argento al Valore Militare.

Si ringrazia per la collaborazione Ruggiero Graziano, presidente dell'ANMIG (Associazione Nazionale Mutilati Invalidi di Guerra) - sezione Barletta (via Capua, 28).